Lo tsunami di ghiaccio

Non è il titolo di un film dell’orrore ma quanto successo in un’area particolarmente fredda degli Usa. Un’ondata anomala di basse temperature ha fatto sì che le acque del lago Michigan siano esondate ghiacciando all’istante e arrivando a coprire le case sulle coste. L’effetto della materia che incessantemente cresce e procede fino a inghiottire le costruzioni si commenta da solo.

Non ci si stupisca se non si nota una bava di vento e la gente sia tranquilla e senza imbottiture. Stando agli esperti, il fenomeno che ha innescato la valanga orizzontale potrebbe essere avvenuto al largo, manifestando così a distanza l’effetto catastrofico.

Se qualcuno vede un giocattolo anziché un rifiuto

I bambini imparano a riciclare costruendo i giocattoli dagli scarti e dai rifiuti.

La storia arriva da Aversa e credo meriti la massima considerazione.
Dal Blog di Mario Schiavone, che ringrazio per la segnalazione:

Cari amici, vi prego di diffondere in modo massiccio e largo questa locandina del Laboratorio Creativo per Bambini…perchè ad oggi nessuno ha ancora aderito a questa iniziativa iscrivendo il proprio figlio, nipote o altro bambino interessato a costruire giocattoli riciclando i materiali che ci circondano. L’intenzione è quella di “sensibilizzare” anche i bambini al tema del riciclo ambientale: permettendo loro, anche pochi, di stare con noi 3 ore mentre spieghiamo l’ora come costruire cose con quella che a tutti pare solo monnezza fastidiosa da lanciare nello spazio a ogni costo. Grazie in anticipo a tutti, campani e non. ps Questa preghiera è indispensabile: se non si raggiunge il numero minimo di 5 bambini…saremo costretti ad annullare questa iniziativa. http://inkistolio.wordpress.com/2013/11/25/inkistolio-presenta-laboratorio-per-bambini-sfruttare-i-rifiuti-per-costruire-giochi/

Bici, la prossima rubata non sarà la tua se…

La FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) ha condotto la prima indagine nazionale sui furti di biciclette e ha appena presentato i risultati in un convegno a Milano. La ricorrenza era il  65° anniversario della prima proiezione del capolavoro di Vittorio De Sica “Ladri di Biciclette“.

Leggendo l’analisi svolta si scopre che quello del furto di pedali è un fenomeno che genera ogni anno un danno di 150 milioni di euro all’economia del Paese e che solo il 40% delle vittime sporge denuncia. Sono cifre che impressionano: ogni anno, nel nostro Paese, il parco bici circolante di quattro milioni subisce 320.000 furti. Cioè 12 bici ogni 100 son quasi sicure di prendere strade diverse da quelle scelte dai loro legittimi proprietari.

Un dato curioso: per i ciclisti italiani la paura di essere derubati è seconda solo a quella di essere investiti. Dunque, per moltiplicare il numero dei ciclisti e per sostenere i progetti di mobilità sostenibile e tutela ambientale, al pari delle piste ciclabili è indispensabile occuparsi seriamente anche dei ladri di biciclette.

Secondo i dati di FIAB, non funziona pensare “se rubano più bici aumenta l’indotto di settore” perché chi ha subìto un furto è più incline ad acquistare una bici a basso costo e di inferiori standard di sicurezza, spesso proveniente da mercati extraeuropei. In alternativa, si tende a rivolgersi al mercato dell’usato, talvolta di dubbia provenienza, concorrendo così al reato di ricettazione.

Il problema della non-denuncia rallenta i provvedimenti del legislatore. Il caso di Bologna è emblematico: su 240 questionari compilati, i furti subiti sono stati 275, più di una bici a testa, ma le denunce solo state solo il 27%. Nei capoluoghi dove muoversi su due ruote è un’abitudine diffusa e dove è presente un sistema di identificazione delle bici, l’indagine mostra un atteggiamento più responsabile dei cittadini: a Padova, ad esempio, il 68% ha esposto denuncia, mentre a Reggio Emilia si arriva addirittura a un 89% di furti denunciati.

Per contrastare il fenomeno della delinquenza a due ruote, FIAB propone un sistema di punzonatura pubblico e univoco del parco bici circolante, come per altro avviene in molti altri paesi europei. La via ipotizzata è la marchiatura indelebile del codice fiscale del proprietario sulla bicicletta, perché offre una serie di vantaggi facili da ottenere. Si tratta di un database già esistente nel nostro Paese e che offre l’identificazione immediata del proprietario e la possibilità di restituire il bene mobile, facilita la gestione intelligente delle bici sequestrate, ora inevitabilmente ammassate dei magazzini comunali, disincentiva il furto e il riciclaggio, incentiva la denuncia del furto della bicicletta, facilita l’abbinamento della bici al suo proprietario in qualunque luogo del nostro Paese.

Pare insomma, secondo la FIAB e la logica, che la punzonatura possa aiutare. Nel mentre, esistono le solite buone vecchie precauzioni del lucchetto robusto e del buon senso.
Scarica qui il pieghevole FIAB gratuito “Come rendere la vita difficile ai ladri di bici”.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Due foto, due crudeltà, ma la bestia è una sola

Queste sono due immagini “rubate” alla mostra fotografica realizzata in collaborazione con la sezione documentaria della BBC e dal Natural History Museum di Londra.
Vi chiedo di guardarle bene. In entrambe ci sono due vittime. Focalizzate la vostra attenzione sugli sguardi.
Sì, c’è quello delle vittime. E c’è quello degli aggressori.
La differenza sta in questi ultimi. Gli aggressori sono tutti giovani. I cuccioli felini nella savana stanno imparando la legge della natura, la madre ha appoggiato la giovane gazzella lì per insegnare loro a cacciare. Nel trasportarla, il genitore della cucciolata si é premurata di non farle del male.

Il bambino invece sta torturando gratuitamente la scimmietta semplicemente perché nessuno gli ha mai insegnato il valore di una vita. Probabilmente non ha mai letto un libro, altrettanto probabilmente nessun adulto ha mai spiegato lui cosa differenzia gli uomini dagli animali. Quella scimmietta ha lo stesso sguardo terrorizzato che potrebbe avere un uomo. Il bambino invece ha lo sguardo fiero, quello di chi é sicuro che sta facendo qualcosa di cui essere orgoglioso. Potrebbe tranquillamente essere altrettanto crudele con un suo simile, imbracciando un fucile o un macete.

Alla fine, le due foto mi confermano che le bestie non sono gli animali.

Mezza provincia di Milano galleggia in Antartide

Un iceberg grande come metà provincia di Milano (circa 710 km quadrati) si è staccato dall’Antartide mettendo in allerta i centri di controllo della navigazione nell’emisfero meridionale.

Il distacco è stato monitorato dall’ottobre 2012 ed è avvenuto gradualmente con una spaccatura simile a un crepaccio. Il “ghiacciolo” ci metterà un bel po’ a sciogliersi, ecco perché è stato lanciato un segnale di allerta a tutti i natanti nella zona. L’evento non va necessariamente interpretato come un segnale di evoluzioni climatiche, fenomeni simili sono abbastanza frequenti, anche se le dimensioni di questo iceberg sono decisamente eccezionali. In questi casi, quello che preoccupa non è tanto la parte visibile, quanto le dimensioni della parte immersa, attualmente non ancora monitorata. I naviganti sono avvisati.

Il distacco ha anche un paio di risvolti naturalistici. Una massa di ghiaccio di queste dimensioni è in grado di influire il microclima dell’area in cui insiste e può in certi casi essere un natante per portare forme di vita, nel caso ce ne fossero, lontane dal luogo di origine.

Nessun colpevole per la petroliera squarciata

Una petroliera si spacca come fosse fatta di lego, la chiazza di petrolio che rilascia è grande come una provincia, sulle coste della penisola iberica succede un’ecatombe alla fauna e alla flora, i danni economici alla pesca sono talmente ingenti da costringere a trasferire la flotta e… nessun colpevole!

A volte la realtà supera davvero la fantasia. Se fosse stata la trama di un romanzo, un qualsiasi editor avrebbe sostenuto la non verosomiglianza, invece

Il paradosso dell’inceneritore inutile

Ci sono parecchie enclavi italiane dell’ecologia dove si ricicla sempre di più e sempre meglio e non pensiamole tutte al nord perché nella lista fanno bella mostra anche località come Salerno e la Sardegna. Tra i virtuosi c’è anche la Brianza: la terra cantata da Stendhal rappresenta un esempio da seguire per l’attenzione di chi ci abita a distinguere e differenziare i rifiuti.

Un po’ meno virtuosa è  la scelta dei gestori del consorzio BEA (Brianza Energia Ambiente) in merito al loro inceneritore di Desio (provincia di Monza e Brianza). Il loro consiglio ha deciso, in un momento di sovracapacità degli impianti locali, di ingrandire l’inceneritore con un investimento di 32 milioni di euro per portarlo a 80.000 tonnellate annue di rifiuti da bruciare.

Spiegatemi: la logica è quella di renderlo ancora di più sovracapace? Non era abbastanza sottoutilizzato? Se già riciclo bene a cosa mi serve un forno più potente per bruciare i sempre minori scarti? L’unico a reagire con decisione è stato il comune di Desio.

“Grazie alla nostra opposizione il progetto è stato revisionato – afferma Roberto Corti, sindaco di Desio – eravamo gli unici contro e abbiamo ottenuto di andare verso un graduale spegnimento e lo sviluppo nel consorzio di pratiche come quella del compostaggio, ma con solo il solo 12,5% rappresentato dalle nostre quote nella BEA c’è ben poco da fare.”

Il territorio compreso tra Milano e i laghi ha tutti i numeri per essere valorizzato con piste ciclabili e aree verdi. Potrei sbagliarmi, ma non credo che un inceneritore rientri tra le attrazioni per richiamare il pubblico, tanto più in un’ottica di valorizzazione del territorio cornice di EXPO2015.

”È stato un colpo di mano inaccettabile, una maggioranza risicatissima di pochi ha deciso per il futuro di tutti ampliando un inceneritore forti di un’autorizzazione acquisita poche settimane prima di una moratoria Regionale che ha detto, finalmente, stop a nuovi forni – dichiara Andrea Monti, assessore al turismo della provincia di Monza e Brianza –  Un investimento utile a chi e a che cosa? I cittadini rischiano di pagare un doppio conto, ambientale ed economico, nel caso in cui il piano industriale si rivelasse insostenibile.”

Uno schema riassume brevemente perché gli inceneritori dovrebbero essere ottimizzati da una corretta gestione dei rifiuti per ridurli (e bruciarli) al minimo.

Sono brianzolo, amo la mia terra, il nostro fiume si chiama Lambro e quando sono nato non potevi immergerci un piede senza danni per la tua salute mentre ora sono tornati i pesci e posso andare in bici sulla sponda da Monza fino ai laghi. Perché devo leggere ancora notizie illogiche che mi rendono incapace di spiegare la scelta di certi amministratori? Soprattutto: perché non sono diffusi ampiamente i nomi e gli interessi di chi ha votato a favore del piano di ingrandimento? I cittadini che pedalano, immergono i piedi nel fiume e riciclano coscienziosamente hanno il dovere di sapere.

Un popolo perso tra i due mari, il Salento misterioso sulle tracce degli antichi Messapi

Questo articolo è pubblicato anche su Il Corriere della Sera

L’alba è solo una striscia lattiginosa in cui galleggia una palla infuocata. Al di qua del mare, sotto un cielo cobalto, le mura della città si colorano appena la luce inizia a gocciolare disegnando i blocchi in pietra che circondano la porta sotto l’occhio delle sentinelle. Dal porto stanno già salendo i pescatori con le casse ancora guizzanti. Nelle vie, il brusio del mercato e le ruote dei carri dicono che i contadini sono già arrivati per vendere la fatica dei loro campi. La scena è di nove secoli fa, la terra è l’estremità sud-orientale della Puglia e il popolo è quello dei Messapi. Non provo neanche a ricordarli dal libro di storia. Non ce la farei a collocarli nella geografia di quelle genti che, pur destinate ad essere assorbite nel territorio di Roma, hanno lasciato tante e tali tracce da richiamare studiosi da tutto il mondo e far appassionare i dilettanti dell’archeologia come me. C’è un fatto che però sorprende tutti. Questa terra è bella oggi come allora.

Castro è un nido di tufo sulla cima di un promontorio che affonda le radici nel blu dell’Adriatico. Per congedarsi dal corridoio blu iniziato nella lontana Venezia, ci incanta con i riflessi magici delle grotte di cui la Zinzulusa è solo la più famosa. Raggiungibile anche col mare mosso grazie a una scalinata, l’ingresso nella terra ha un che di sacrale, come se il rumore delle onde fosse lo spunto per ricordare che in questa parte dell’Italia, la distinzione tra terra è acqua è solo una formalità. Il suo nome deriva dalle numerose stalattiti e stalagmiti che nel dialetto locale sono chiamate «zinzuli», ovvero stracci. La porta che immaginiamo baciata dal sole di un mattino antico non si vede dall’ingresso della grotta, bisogna uscire e aguzzare la vista nella scorpacciata di verdi della vegetazione. I colossali massi perfettamente incastrati fanno pensare alle civiltà megalitiche di certe isole greche, Micene su tutte.

Il picchiettio degli studiosi al lavoro è solo la scusa per infilarsi tra le vie e scoprire, tra gli scorci, quel panorama che con un colpo d’occhio attraversa il mare fino all’Albania. Forse è da lì che sono arrivati i Messapi, popolo di origini illiriche. Il dubbio è d’obbligo perché, in quel meraviglioso melting pot che è il Mediterraneo, la loro origine non ha una precisa collocazione. Il toponimo Messapia fu probabilmente coniato per la prima volta dagli storici greci col significato di «terra tra i due mari » e ben si sposa con quel Salento che è davvero un ponte di olivi e vigne gettato nel blu.

Vaste è l’antica Basta di cui si rinvengono notizie nelle opere di Plinio. È uno dei siti più interessanti per la quantità e la qualità dei reperti che gli scavi hanno restituito al sole di questa terra meravigliosa. Parecchi anni di studio e molte campagne di scavo dell’Università di Lecce hanno permesso di delineare il mondo messapico pur con l’alone di mistero che lo circonda, a partire dalla complessa decifrazione di una lingua la cui pronuncia è ancora ignota. È ben chiaro che qui c’erano città grandi e ben fortificate.

Salendo sul balcone panoramico del Parco del Guerriero, nella frazione di Poggiardo, i 77 ettari dell’insediamento si leggono nelle tracce del doppio muro di pietre che conteneva il terrapieno all’epoca del massimo sviluppo, ipotizzato nel IV sec. a.C. Qui si trova anche una riproduzione dell’ingresso dell’ipogeo delle Cariatidi, ritrovato in quella che era l’area funeraria e oggi centro storico dell’abitato. Le statue originali sono al museo Castromediano di Lecce e al museo Nazionale di Taranto, ma il cinquecentesco Palazzo Baronale affacciato sulla piazza ben rappresenta esempi del tipo di reperti ritrovati nell’area. Stesse imponenti dimensioni si ritrovano anche se si procede in direzione di Lecce. Il capoluogo del Salento che conosciamo per lo splendore barocco, è città messapica. Per rendersene conto basta avvicinare il museo della città, non prima di aver però sostato a Cavallino.

C’è qui un museo diffuso che ripropone una passeggiata difficile da ripetere altrove. Incamminandosi sui tracciati si arriva alle estremità dell’antico abitato. Circondati dall’erba alta, ci si perde nel tempo scoprendo che le porte della cinta muraria hanno ancora lo scavo del passaggio delle ruote dei carri, mentre i pilastri rivelano la presenza lontana dei cardini. Il vento della piana che porta il profumo di terra e cielo pulito appiattisce gli steli ma non alza il sipario sulla contaminazione contemporanea. Il significato profondo del popolo messapico però sta più a sud. Sulla strada per Leuca c’è Tricase, il centro più grande del Capo di Leuca e uno dei più popolosi del Salento. Qui il medioevo è stato una catena di passaggi di feudo che ha lasciato un centro storico d’incanto che le guide turistiche spesso trascurano. Sedersi sul sagrato della chiesa in piazza Pisanelli e ascoltare le rondini è un inno alla vita. Non distante, in direzione del mare c’è la Quercia Vallonea.

Nell’Italia che spesso dimentica i monumenti con radici e rami, questo albero ha sette secoli e una chioma che, si dice, fu in grado di ombreggiare cento cavalieri. Arrivati a Santa Maria di Leuca, la spianata tra il santuario e il faro è un messaggio. La terra finisce, il Bel Paese è tutto alle mie spalle e non riesco a non pensare a un unico meraviglioso sentiero che inizia a Vipiteno e finisce su queste scogliere dove nidificano i gabbiani. Così mi rendo conto di cosa erano i messapi ieri e cosa siamo noi oggi. Ci piaccia o no, custodi di una porta tra le civiltà che i salentini sanno aprire per farsi trovare a braccia aperte. Tutto qui, davvero tutto, ha il sapore di un ritorno a casa.

Questo articolo è pubblicato anche su Il Corriere della Sera

Stefano Soldati e le case di paglia

E’ Stefano Soldati, nato a Milano nel ’61, che oggi è progettista e docente di quelle case tante odiate dai Tre porcellini.
“Ho studiato agraria presso la UniMi – racconta – erboristeria presso l’Università di Urbino, management aziendale presso la SDA Bocconi, e poi  biodinamica presso l’Associazione Agricoltura Biodinamica. Ho seguito stage negli Stati Uniti e in Australia, frequentato decine di corsi di formazione professionale in Italia e all’estero. Sono stato uno dei primi quattro diplomati in Permacultura in Italia. Con Barbara Jones, pioniere in Europa nelle costruzioni in balle di paglia, ho studiato in Inghilterra e Galles e imparato le tecniche di costruzione con balle di paglia, intonaco in terra cruda e calce, formandomi come progettista e docente. Poi mi sono specializzato in terra cruda presso il centro FAL e.V. di Ganzlin Germania. Insegno da diciotto anni agricoltura biologica e management aziendale, permacultura e quindi costruzioni in paglia, terra cruda e calce”.
Le case che realizza Soldati hanno i muri in balle di paglia, intonacati con terra cruda internamente e calce esternamente. “C’è chi le riveste di legno o le intonaca con cemento – agiunge –  ma in entrambi i casi le case perdono di qualità. E’ difficile da credere perchè abbiamo una tradizione del mattone e pietra passata poi al cemento armato, ma le case in paglia sono molto più sicure, sotto tutti i punti di vista, rispetto alle case convenzionalihttps://www.facebook.com/laboa.strawbalehouse
A sentire Soldati,  le prime costruzioni in paglia sono nate in Inghilterra e da lì si sono diffuse negli altri Paesi. Attualmente nel Regno Unito ci sono circa mille edifici, così pure in Francia e Germania. Altre mille tra Spagna, Austria, Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, Lituania, Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda. Nel nostro Paese circa un centinaio.
“Nel 2003 – spiega  Soldati – ho deciso di costruire la mia casa e non la volevo in cemento armato e laterizio. Nel 2000 al corso di Permacultura avevo sentito parlare di case in paglia, ne avevo viste in Spagna e Inghilterra e avevo pure già incontratoBarbara Jones. Ho deciso per la paglia. Quando sono incuriosito da qualcosa e voglio approfondire, mi metto a studiare, frequento corsi e metto in pratica. Questo mi porta a una profonda conoscenza che spazia a 360°, supportata anche dall’esperienza. Una grande fortuna è stata quella di avere come docente Barbara che, con la sua professionalità e la sua precisione, è stata veramente di grande peso nella mia formazione. Ho fatto tutto il percorso formativo, che è durato un paio di anni per diventare progettista e docente. Il corso prevedeva incontri teorici in aula, ma, soprattutto molta pratica sia in cantiere con maestranze sia con corsisti per praticare anche l’aspetto didattico”.
Sono più economiche le case in paglia?
Costruire con la paglia può essere più economico, se alla base c’è un buon progetto. Purtroppo in Italia è ancora difficile trovare dei buoni progettisti in grado di fare una progettazione specifica per la paglia. Si tratta in genere di professionisti con formazione ‘convenzionale’, che cercano di cavalcare l’onda alternativa. La costruzione con la paglia prevede dettagli e particolari spesso molto lontani da quanto ci hanno insegnato a scuola, ma che tutti insieme fanno una grande differenza nel risultato finale e nei costi. Oggi stiamo proponendo edifici abitativi in classe A+, con finiture di buona qualità, chiavi in mano a 900euro/mq. Questo importo si può ridurre abbastanza se si fanno in ‘autocostruzione’ il posizionamento delle balle di paglia, gli intonaci, i pavimenti e almeno parzialmente gli impianti. In questo modo siamo arrivati a cifre vicine ai 500euro/mq. Il consiglio che rivolgo ai progettisti? Studiate, formatevi, frequentate corsi teorico-pratici, fate pratica prima di imbarcarvi nella progettazione/costruzione di un edificio.
Sono calde d’inverno e fresche d’estate?
Se ben progettata una casa in balle di paglia può non aver bisogno di riscaldamento o raffrescamento. Ci sono case solari passive nel nord della Scozia e del Canada, sulle Alpi Svizzere con temperature che arrivano  a – 30°C, ma anche nei deserti in Australia, Messico, dove in estate si raggiungono anche i 50°C. Se non progettate secondo i principi della bioclimatica, le case possono richiedere comunque quantitativi minimi di energia. Ciò dimostra che questa tecnica si applica con successo in tutte le condizioni climatiche.
Quanto è stato faticoso parlare di casa di paglia in Italia?
In Italia non è stato difficile far partire dei corsi, abbiamo sempre avuto buone adesioni. La difficoltà principale la segnalano gli utenti, che oggi trovano su internet un’offerta formativa diffusa e non hanno strumenti per fare scelte appropriate. Purtroppo, ci sono molte persone che, dopo aver frequentato un corso di tre giorni con noi, si sono improvvisate docenti, organizzando a loro volta corsi di formazione. Fare formazione senza conoscere in modo approfondito le tecniche costruttive e di insegnamento fa scadere la qualità degli edifici realizzati. I corsisti spesso non se ne rendono conto. Si vedono su internet fotografie di edifici realizzati durante corsi che hanno non pochi punti critici, nascosti con un bell’intonaco. Il mio consiglio? Rivolgersi a un progettista che abbia frequentato dei corsi seri e abbia formazione specifica sulla paglia. Questo influirà positivamente sia sui costi sia sulla qualità finale. A questo scopo consiglio anche di farsi fare almeno tre preventivi da tre professionisti diversi.
Il suo rapporto  con le lobbies del cemento armato?
Non abbiamo avuto problemi, anzi abbiamo avuto buoni rapporti. In un momento di crisi totale per l’edilizia convenzionale questa tecnica alternativa potrebbe portare una boccata di ossigeno non solo per il pianeta, ma anche per i costruttori. Molti giovani progettisti sensibili ai temi ambientali si stanno avvicinando con grande soddisfazione a questo settore in forte crescita. Per questo motivo stiamo anche mettendo a punto per il 2014 un corso online a basso costo, ma di altissima qualità con il supporto dei maggiori esperti mondiali sulle costruzioni in paglia, specifico per progettisti con teoria e stage pratico finale. Alla fine del corso verrà rilasciato un diploma e il progetto finale potrà essere pubblicato per essere venduto. 
La sua casa com’è?
La mia casa è stata la prima in Italia ad avere la balla di paglia non solo come isolante, ma anche come elemento costruttivo. Esiste una struttura a telaio, ma gli elementi murari sono in balle con gli intonaci in terra cruda e calce, applicati direttamente sulla paglia. È un edificio di quasi 400mq. su due piani.
Per chiudere, i tre porcellini non avevano capito niente?
Esatto. La morale della favola dei tre porcellini sa qual è?
Prego
Non permettere che sia un porcellino a costruirti la casa.
(Cinzia Ficco)
Questo articolo di Cinzia Ficco, che ringrazio, è tratto dal suo blog TipiTosti.

Il baciare che fa bene

Gli psicologi della Oxford University si sono messi a studiare i baci. La notizia non passa inosservata. Baciare piace a quasi tutti e la specie umana è una delle poche, qualcuno sostiene l’unica, a farlo. Gli studiosi inglesi hanno cercato di capire perché.
L’equipe guidata dal professor Wlodarsky propone almeno tre risposte.

Innanzitutto potrebbero essere un preludio al sesso per aumentare l’eccitazione. Parrebbe valere sempre per gli uomini, un po’ meno spesso per le donne. Interpellato nel campione statistico della ricerca, il gentil sesso sostiene di preferire il gesto del bacio dopo l’amplesso. La seconda ragione è quella legata all’affetto: ci si bacia per dimostrare che ci si vuole bene. La radice preistorica, sempre per gli studiosi, è quello dell’accettare di esporsi ai rischi e dimostrare in pubblico il legame di coppia. La terza ragione sarebbe una sorta di analisi sensoriale per la quale si bacia ciò che si vuole conoscere meglio, come volendone assaggiare il sapore.

Per gli amanti della pratica, la ricerca fa emergere elementi molto concreti sul bacio:
-migliora l’umore, perché abbassa il livello di stress,
-rinforza le difese immunitarie, grazie ai 60 milioni di batteri presenti nella saliva e agli anticorpi,
-fa bene al cuore, aumentando la pressione,
-mantiene in forma, coinvolgendo la bellezza di 29 muscoli.

Tutte le ragioni dei benefici affonderebbero nel lontano passato dell’uomo e nel percorso che ci distingue dagli altri esseri viventi.
La componente sensoriale è quella che mi incuriosisce di più. A volte ci si bacia, o si simula il bacio con lo sfioro delle guance, per stabilire un atteggiamento di benevolenza. Mi viene in mente come si usmano i camosci, per intenderci: si cerca qualcosa che piace o non piace nell’altro. Se ci pensiamo c’è dunque una forte componente ecologica nel bacio. Con la sola eccezione di Giuda, che fece del bacio una mera fase di transazione commerciale, ci si bacia anche per studiarsi e andare oltre le apparenze degli abiti e delle abitudini. L’abito non fa il monaco e il bacio aiuta a capirlo meglio.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.