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Eternit: l’ecologia del camaleonte

La brutta storia dell’Eternit sembra essere finita nel nulla. La sentenza di prescrizione vanifica la protesta di quanti sono rimasti a piangere le vittime di questo materiale che aggiunge alla morte un senso di incognito legato alla letalità, che può manifestarsi anche dopo 30 anni dall’aver respirato quella sostanza che nessuno ci aveva detto cosa provocava. Non stia tranquillo chi non ha lavorato nella fabbrica della morte. Basta un singolo frammento ad ammazzarti. Significa, ad esempio, che io, mio fratello e tutti i nostri compagni che hanno frequentato il liceo di Monza dove il soffitto era in formelle di eternit siamo potenziali morti per amianto.

Dall’altra parte di tutto questo casino c’è un tranquillo signore svizzero che dal suo buen ritiro dorato dichiara di aver sposato la causa dell’ecologia e avoca a sé il merito di aver capito in tempo i rischi dell’eternit . Peccato che Stephan Schmidheiny è in realtà il signor eternit in persona, essendo stato il vertice proprietario del colosso industriale che gestiva lo stabilimento di Casale Monferrato. La verità è che all’epoca sembrava di aver trovato il materiale perfetto, con quel nome che grondava infallibilità e durevolezza, più o meno come il Titanic. Le vittime che la vana gloria dei mari fece nel colpo di una notte, il materiale in questione le ha moltiplicate negli anni in cui fu celebrato come l’uovo di colombo non solo dell’edilizia ma anche del design. Nel museo Toni Areal di Zurigo, dedicato alla creatività elvetica, c’è perfino un angolo a lui dedicato, senza una mascherina o un solo cenno alla pericolosità di quel che si sta osservando.

Tra le tante posizioni lette in questi giorni ho apprezzato quella di Beppe Severgnini che dalle pagine del Corriere spiega perché siamo al caso di “innocenti per debolezza”. Il suo è un incipit che andrebbe scolpito davanti a qualche tribunale e a molte aziende, a partire da quelle finite su tutti i giornali.

Dopo ThyssenKrupp, Eternit. Una coincidenza che sa di beffa e provoca frustrazione. Nessuno chiede colpevoli per forza; ma neppure innocenti per debolezza. Debolezza delle norme, delle procedure, di chi deve applicarle. Umiliante: non c’è altro aggettivo per descrivere quant’è accaduto.

Con camaleontica sfrontatezza, Schmidheiny chiede ora protezione allo stato italiano per non essere più coinvolto in quelle che lui stesso definisce “processi ingiustificati”. Esca dal suo rifugio e venga a farsi un giro a Casale, Stephen. Ne abbiamo abbastanza di casi in cui l’industriale di turno rinnega il lavoro dei suoi sottoposti che han fatto disastri con persone e ambiente. Se la morte di un uomo è una tragedia, una sciagura in un antro polveroso, mille morti non sono una statistica asettica solo perché monitorate da un tabulato su una scrivania luccicante. In Italia, come nel resto del mondo, le tragedie vanno punite, non prescritte.