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Cade la terra e canta l’Azzurro per lo scacco alla camorra

Ogni tanto capita di imbattersi in luoghi abbandonati, così densi di suggestione e talmente ricchi di fascino che spesso è difficile non rimanerne incantati. Proprio in quanto abbandonato, il luogo in questione – paese, palazzo, parco, metteteci quello che volete purché ci sia quella patina da relitto – non ha il potere di attrarre nessun interesse economico. Solo emozioni. Rettifico, non dovrebbe avere, perché invece non è così e vorrei innescare il contraddittorio di questa nostra Italia che a volte procede a tre velocità, di cui una, ahimè, è una retromarcia.

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Partiamo da questa. Della camorra abbiamo sentito un po’ di tutto. Cinquanta sfumature di male non basterebbero a raccontare quanto questa piaga danneggia l’ambiente, oltre alla società. Vorrei portare all’attenzione di chi ancora non la conoscesse la vicenda della Reggia del Carditello, perché è un caso esemplare di luogo lasciato abbandonato dove l’abbandono è fine a se stesso e agli interessi locali. Di chi? Citofonare camorra. Brevemente: i Borbone costruiscono un idillio architettonico definita una piccola Versailles, la storia lo fa abbandonare, la camorra se ne impossessa, un ministro e una giornalista che prendono posizione contro la malavita e pro recupero sono minacciati in prima persona in pure stile da film: “Piantatela di parlare di Carditello o siete morti”. Non posso non sottoscrivere le parole di Gian Antonio Stella:

C’è una sola risposta che il governo può dare alle minacce contro Massimo Bray e Nadia Verdile, la cronista che da anni denuncia il degrado della reggia borbonica nella Terra dei Fuochi. Deve raddoppiare gli sforzi e gli investimenti e la presenza di agenti e carabinieri: la battaglia di Carditello va vinta. E la camorra deve uscirne umiliata. Ne va dell’onore dello Stato.

Aggiungo di mio che gente così va colpita con ogni strumento che la legge mette a disposizione, a partire da quella che queste bestie non sopportano: il diritto.

Ci sono poi altri strumenti, da marcia avanti veloce. Ne vorrei citare uno letterario e uno musicale. Chi meglio può aver trattato il tema dell’abbandono se non un’abbandonologa? La qualifica arriva da un bimbo che, domandando all’autrice Carmen Pellegrino di cosa si occupasse, si è sentito rispondere dalla stessa che lei si dedica alla (ri)scoperta dei luoghi abbandonati. L’abbandonologa ha adesso pubblicato un libro. Cade la Terra è la sua opera prima ed è davvero un bell’esordio.

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Potete trovare in rete qualche anticipazione, ma solo perdendovi in Alento, paese in abbandono, potrete respirare quella patina così forte che fa tanto Italia dell’entroterra. Il book trailer è davvero toccante. Per quanto mi riguarda un piccolo film da mandare ai concorsi.  Qualcuno dice che c’è molto sud nelle parole dell’autrice campana, ma non sono d’accordo. Per esperienza, potrei dirvi che ho trovato molta provincia dispersa, dalle valli alpine al tavoliere pugliese, passando per una dorsale appenninica che trova degli appunti lirici che la Pellegrino coglie e amplifica benissimo. A partire dalla scelta della protagonista Estella, una ex suora. La storia è narrata a più voci. Sono fantasmi o persone reali? A voi scoprirlo. Di concreto ci sono i magnifici piani fotografici sul paesaggio. C’è il taglio dei particolari.

Mi voltai e subito, solitario, mi apparve l’olmo le cui foglie, benché si fosse in inverno, erano tutte intatte. Sembrava un monumento, simile tanto a una grossa statua di cui però non aveva l’immobilità. Mi parve infatti che fosse diverso dalla sua fama, che non avesse nulla di letargico, nulla degli alberi che per anni non si muovono, o lo fanno poco, a dirla grande. L’olmo, conclusi, era del tipo fracassone, lievemente avvinazzato, con le radici che sembravano sfuggire dal suolo con una ramificazione randagia che andava dove ce ne era bisogno, caduta la terra, cadute le stelle…. Questo grande albero dal sonno insonne, questo generoso fracassone dall’odore povero credeva nella gioia di darsi, come fa il frutto che cade, felice com’è di farlo, perché solo ciò che non si dà muore

E poi ci sono gli scorci delle vedute d’insieme.

Dovrò dirglielo che la prossima casa a crollare sarà la sua, che ci resterà sotto se non viene via. Ma sarà inutile perché lascerà quel fosso tanto abilmente guarnito di nebbie, con tutte le erbe e le paludi. Da qui, il paese morto sembra oscillare nella sua massa convessa, come una nave nel mezzo della tempesta, e dalla poppa non si vede la prua. Il fogliame che fino a ieri pendeva lasco dagli alberi oggi ha piombato la strada. I pipistrelli riappaiono veloci, corrono di qua e di là e si suicidano contro le rovine. Succede sempre così quando viene novembre: da un momento all’altro sopraggiunge la notte e non si vede più niente. In quel buio so che c’è lei e ci sono loro

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Carmen fa un’ottima regia sul paesaggio, proponendoci i fotogrammi di una storia densa di poesia che probabilmente ambienterete in luoghi che il vostro cuore ha ben presente.

C’è anche chi si sta occupando di luoghi abbandonati a tempo di musica. Il Libero Coro Bonamici di Pisa è uno dei cori vocal pop più premiati della Penisola. La film maker Francesca Carrera, con la direttrice Ilaria Bellucci, i suoi coristi e qualche volontario, hanno scelto luoghi dimenticati in Toscana – tra tutti: il Teatro Rossi a Pisa e il borgo fantasma di Toiano nel comune di Palaia – per ambientare il loro prossimo video. Hanno scelto Azzurro di Celentano e si sono lanciati in un crowdfunding per finanziarsi e riuscire così a raccontare questi posti (anche) con la melodia. Ve la sentite di fare una piccola scommessa? Mettiamola così: pochi euro per portare alla ribalta luoghi fuori dal comune e toglierli dal dimenticatoio a suon di musica.

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Notizie, storie, melodie. Cose che nessun camorrista capirà mai.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Mi piace il Lego, da oggi anche di più con Greenpeace e contro Shell

Lego, Shell, Greenpeace e un filmato avvincente pur nella sua brevità dimostrano che le petizioni servono. Ricordate la campagna di Greenpeace sulle trivellazioni della Shell nell’Artico? Lego ha ufficialmente deciso di non procedere alla pluriennale collaborazione col colosso petrolifero.

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A chi dovesse storcere il naso sull’ennesimo ecointegralismo, ricordo che le navi Shell si sono spinte talmente sottocosta da provocare già due inchieste. A prescindere dalle dichiarazioni e dalle indagini, bastano le immagini. Nel 2012 la Noble Discover si è quasi arenata fuori dal porto. Pochi mesi più tardi la piattaforma Kulluk è andata a finire sugli scogli dell’isola di Kodiak mentre, pare, la stavano facendo navigare alla svelta fuori dalle acque territoriali per motivi poco chiari.

Nessuno è così illuso da credere di poter puntare al 100% di rinnovabili a breve termine. Un minimo di ricerca di materie prime di origine fossile ci è dunque ancora indispensabile. Esattamente indispensabile come il senso di responsabilità per tutte le precauzioni perché nessuna Kulluk o Noble discover finiscano a combinare il disastro che per ora si è evitato. Quello spot della Lego è stato davvero a un passo dalla realtà. Il gioco ha aiutato a far capire che la Terra non può essere in gioco.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Sono tornati i prati dopo il sangue della guerra

 

In occasione della ricorrenza della prima guerra mondiale, ho deciso di non perdermi i due film italiani della stagione dedicati all’argomento. Confesso di essere andato alle anteprime con l’occhio un po’ critico del documentarista e con l’aggravante del forte interesse per l’argomento. Torneranno i prati di Ermanno Olmi e Fango e gloria di Leonardo Tiberi mi hanno a loro modo coinvolto. Il forte denominatore comune delle atmosfere rese non si stempera nella forza evocativa delle due pellicole.

Olmi trasporta con la bella fotografia nei silenzi della montagna. C’è molto Deserto dei tartari di Buzzati nella storia di una notte interamente ambientata in una trincea sospesa nel paesaggio argentato dalla luna. Quando la quiete è interrotta da un pesantissimo bombardamento, la pace della montagna sprofonda irrimediabilmente nel dosso dove il sogno di un soldato mostra un larice diventare d’oro e poi bruciare con le vite di molti militi. Manca una storia, ma forse Olmi voleva esattamente questo per intrecciare il non-senso di una guerra che porta in contatto gli uomini senza venire a capo di nulla. Qualche lacuna sui dialoghi è compensata da particolari struggenti come il soldato che bacia il tozzo di pane, l’uomo che canta sulla cima del dosso e la marcia del plotone in ritirata nella neve. Massimo rispetto per il maestro che ha seguito tutte le riprese sfidando il gelo sul set e che chiude con la citazione del padre.

Tiberi la storia invece ce l’ha e la racconta in modo originale. Narrazione in prima persona, intercalarsi frequente di immagini d’epoca colorate allo scopo di avvicinare il pubblico, passaggi intensi dalla zona di fronte a quella delle retrovie dove l’attesa di una notizia dei propri cari era forse ancora più pesante che l’attacco imminente dalla trincea.

Se per il maestro Olmi era abbastanza scontato il traguardo della produzione grazie al suo nome, a Tiberi non si prospettava vita facile. Anche grazie al Banco Desio, è comunque riuscito a creare qualcosa che si avvicina all’esperimento (riuscito) del documentario rafforzato da una linea di fiction. O, se preferite, il viceversa di una storia arricchita dal valore documentario che racconta anche la storia del Milite ignoto. A ognuno la scelta. Ogni occasione è buona per ricordare e il cinema riesce qui a svolgere il suo ottimo servizio, convinto più che mai che andrebbe portato sempre più spesso anche nelle scuole per raccontare con poche immagini quel che tante parole spesso non rendono. Nell’era virtuale, la memoria passa ancora da qui.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

La casa del futuro passa dalle Canarie

Alle Canarie c’è un luogo dove ecologia, vacanza e ricerca si fondono in una realtà che non ha uguali al mondo. Non è un’affermazione da depliant pubblicitario. La storia: qualche anno fa il Cabildo Insular di Tenerife (il governo locale) decide di bandire un concorso per la casa ecologica ideale. Partecipano 400 studi e i 24 progetti finalisti sono effettivamente realizzati in una conca rocciosa nella porzione meridionale dell’isola. Se inizialmente si pensa di mettere le case a disposizione del personale del vicino Istituto Tecnologico di Energia Rinnovabile (ITER), col tempo alcune delle residenze vengono aperte al pubblico e la gente, principalmente dal nord Europa, inizia a scegliere questo villaggio per trascorrerci le vacanze.  

Casas iter di TenerifeNon è un ambiente che capita di vedere spesso, immaginate la prateria costiera come una conca di origine vulcanica, circondata da generatori eolici e affacciata sulla deliziosa spiaggetta di sabbia a ridosso della Riserva naturale della Montaña Pelada. Soprattutto immaginate di vedere, sparse qua e là nella vegetazione, 24 costruzioni completamente diverse tra loro a condividere l’ispirazione bioclimatica del loro progetto. A ognuno dei tecnici era stato richiesto infatti di adattare la casa al principio per cui terreno, agenti atmosferici, orientamento della costruzione, vegetazione e materiali concorressero al miglior comfort termico senza intervento di energia esterna. Al consumo di energia per luce ed elettrodomestici si è provveduto attingendo a due risorse di cui le Canarie abbondano, sole e vento. Casa iter di Tenerife

I progetti sono molto originali e per conformazione e distribuzione degli spazi è un po’ come essere in un museo a cielo aperto. Nella casa che mi ha ospitato, la Bernuolli, avevo a disposizione due piani circondati da un portico che mitigava la calura esterna, con i soffitti realizzati in modo da sfruttare i moti convettivi naturali per avere una temperatura ideale, che potevo monitorare e modificare dal televisore. Miren, che mi ha accompagnato a scoprire le altre case, mi ha spiegato che ogni edificio ha delle peculiarità.

A Tenerife esistono decine di microclimi diversi e nel villaggio ITER non c’è la “casa perfetta” in assoluto. Non è detto che l’edificio particolarmente efficiente qui al livello del mare lo sia anche 1000 metri più sopra. Noi abbiamo finanziato queste costruzioni per dimostrare che alle diverse condizioni climatiche si possono adattare altrettante soluzioni architettoniche perseguendo il risultato delle zero emissioni di CO2 per la climatizzazione degli edifici.


Tenuto conto che Tenerife è estesa come un quarto della Corsica e, con una variazione altimetrica di oltre 3700 metri, è praticamente un vulcano in mezzo al mare, ci hanno appena detto che i progetti delle case ITER sono applicabili a buona parte del pianeta. Le pendici del Teide, il cratere più alto dell’isola che è anche il punto più elevato di Spagna, riescono effettivamente a offrire una varietà di climi che spaziano dal deserto alle spiagge, passando per le foreste di conifere, le vigne, i cunicoli sotterranei scavati dai fiumi di lava. Tutte queste realtà sono visitabili concedendo al viaggiatore la sensazione di essere su un piccolo continente. Perfino l’escursione nel vulcano  riesce a dare suggestioni “marziane”, il test del Rover NASA che sta girando sul pianeta rosso è stato fatto proprio qui. Personalmente, ammetto che essere a Tenerife è un po’ come atterrare in un racconto di fantascienza. Non mi sento attratto alle grandi spiagge del sud, più affini ai ‘turistifici’ di massa, ma posso garantire a chiunque volesse approdare qui e starci una settimana che vivrebbe sette giorni ognuno diverso dagli altri. Per visitare tutta l’isola disponendo di pochi giorni, il mezzo ideale è l’auto, noleggiabile in molti dei centri abitati. Gli autobus di linea sarebbero più ecologici ma servirebbe più tempo. 

Se il villaggio ITER è una opportunità per aggiungere qualcosa di diverso alla vacanza, c’è anche un’altra sorpresa. Gli edifici sparsi nella brughiera dove lo sciabordio delle onde si mescola con il fruscio delle pale dei generatori eolici, hanno quotazioni molto interessanti. La Casa Estrella, una stella in pietra lavica con una grande cucina e 4 stanze protette dagli arbusti di rosmarino, ospita sei persone da 180 euro al giorno. Ci hanno sempre abituato che per il “bio” e “l’eco” dovevamo pagare un po’ di più, ma non  bastassero vulcani, foreste secolari e ottimi vini,  la Tenerife che ho vissuto riesce a stupire anche in questo.

Aggiungo 4 eco raccomandazioni per vivere una Tenerife che non tutti conoscono. Non perdetevi una camminata nel Parco nazionale del Teide, fatevi accompagnare ad ascoltare il silenzio nei canali sotterranei formati dalla lava alla Cueva del Viento, rendete omaggio all’albero monumentale El Drago, perdetevi in un trek urbano tra i vicoli cinquecenteschi dell’antica capitale La Laguna. Alla fine dell’esperienza potreste scoprire che in mezzo all’oceano si sta davvero bene.

Social Street, che bello salutarsi in città

Social Street compie un anno e a Bologna, Milano, reggio Calabria e Palermo, solo cper citare alcune città è tempo di bilanci. L’occasione dell’internet festival di Pisa è il momento per ascoltare come il fenomeno si sia diffuso dalle sue origini fino ad arrivare ad essere un fenomeno di ecologia urbana. Social Street è innazittutto un social di ritorno. Per chi crede che facebook sia l’anticamera della solitudine, Social Street è la smentita. Ci si incontra su fb, ma poi ci si vede anche perchè ci si scopre vicini. Milano è la seconda città per Social Street dopo Bologna, l’ultima aggiunta è Reggio Calabria, ma nella lista ci sono anche piccoli paesi a conferma che non c’è più distinzione tra grande città e centro minore. A Palermo diventa l’occasione per rompere schemi consolidati.
Forse c’è una Social Street anche vicino a te
La forza delle Social Street è quella di nascere dal basso, non c’è competizione tra le vie ma grandissima libertà e socialitá a costo zero. Si aiutano a recuperare beni, si trasforma un parcheggio abusivo in area pedonale, si fa in modo che perfino l’amministrazione si rende conto del vivere comune senza esprimere una direzione. Pierluigi, ricercatore chimico in pensione della storica via Fondazza bolognese da cui è partita la scintilla, racconta della signora che da Trieste esprime il desiderio di tornare nella sua Bologna e i cittadini si attivano per aiutarla a trovare casa.
Qualcuno chiede, qualcuno offre, senza regolazioni economiche, solo il sapere che ci sia qualcuno che magari ti nutre il gatto se sei via è un aiuto. Non servono milioni di investimento ma un sistema protetto dove non ci sono amministrazioni o movimenti politici a cui rendere conto. E’ dunque l’affermazione che la città appartiene ai cittadini e non alla pubblica amministrazione. L’obbiettivo primario è creare socialità e se fallisce questo non è più Social Street. Poi possono esserci altri obbiettivi secondari come organizzare mostre, eventi, recuperi, ma non vogliamo perdere la concentrazione sulla socialità
Un fenomeno di questo tipo è molto simile al vecchio sistema che nei paesi era vicino all’assistenza sociale, quella positiva che non solo vigilava ma era anche un aiuto a vivere. Ed è curioso che proprio ora, nell’era dei social virtuali, ci sia un ritorno. Federico Bastiani, ideatore di Social Street, spiega la ragione dell’interesse dei sociologi al fenomeno.
Nell’implementare Social street volutamente non abbiamo creato una struttura che stabilisse regole ferree, non abbiamo registrato loghi, non abbiamo sposato i classici meccanismi che guidano la nostra economia basati sul do ut des, abbiamo tenuto fuori l’economia e la politica per preservare l’obiettivo originale del progetto, ricostruire la socialità nelle città, a costo zero. Un messaggio semplice dal forte impatto sociale, la potenza del saluto, di un abbraccio fra vicini di casa, la potenza del dono… non sono misurabili in un “bilancio” perché sono relazioni, sono capitale sociale impagabile. Da questa “banalità” del messaggio sta scaturendo un’energia ed una forza che a detta dei sociologici, non ha precedenti e per questo siamo oggetto di studio. Non è un caso che attualmente abbiamo diciotto tesi di laurea differenti che studiano il modello Social street fra sociologici, antropologi, psicologi della comunità, economisti.
Sembra insomma un progetto che di positivo non ha solo il fatto che forse si ritrova l’interesse a sapere cosa puoi fare per il tuo vicino, ma anche l’idea che si crei una responsabilità comune. La strada dove abito è anche mia, se tengo in ordine la casa dove abito, perché non dovrei fare altrettanto con l’ambiente fuori della porta? Vale per la pulizia, l’ordine, la cortesia tra le persone. Chiamateli pure sognatori, se vi va, ma nella vita alcuni sogni, se ci si crede fortemente, sono raggiungibili.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Fatti una stazione

Le ferrovie dimenticate sono occasione di gite in bici e a piedi. Specialmente quelle meno importanti, corrono a volte in posti selvaggi dove il paesaggio è praticamente incontaminato e spesso legato a nomi dalla forte attrattività turistica. Tra le prime che mi vengono in mente penso al tratto Sestri Levante – La Spezia (Cinque Terre), alla provincia di Lecce (Salento), al tratto Siena – Grosseto (parco della val d’Orcia), alla dorsale appenninica in quel meraviglioso mondo rurale tra Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria.
Molte volte, pedalando lungo questi selciati, mi sono lasciato trascinare dal sogno di recuperare uno di questi caselli e farne qualcosa di produttivo. Qualcuno ci ha pensato, proponendo ad esempio stazioni di sosta per biciclette o creando la sede di una piccola onlus come è successo nella stazione di Ronciglione. In Liguria, solo per fare un esempio avvicinabile da tutti, consiglio a chi fosse curioso di saperne di più sultratto tra Levanto e Bonassola. Il percorso pianeggiante che passa sul vecchio tracciato dismesso è pedalabile, pattinabile o camminabile dodici mesi l’anno. Ogni finestra nella roccia delle gallerie è un quadro. Ogni spazio tra i tunnel un’oasi per tuffarsi o fare un bagno di sole. Nel passaggio principale hanno perfino organizzato una galleria d’arte.
 
In tutta la penisola, le ferrovie stanno effettivamente dismettendo alcuni loro edifici e chi cerca qualche idea per lanciarsi nel turismo sostenibile dovrebbe leggere la pagina dedicata. Cito il passaggio chiave:
Fanno parte del Patrimonio FS anche 3.000 km di linee ferroviarie dismesse, di cui 325 km sono stati destinati a greenways: piste ciclabili e percorsi verdi accessibili a tutti, riservati alla mobilità dolce. Il Gruppo vuole infatti definire un Piano Nazionale di Greenways, seguendo l’esempio di altre nazioni europee, come la Spagna, con il coinvolgimento delle Istituzioni, in particolare del Ministero dell’Ambiente, delle Regioni, degli Enti Locali e delle principali Associazioni ambientaliste.
Responsabili di associazioni, volontari, appassionati del pedale e del plein air, è il momento di dimostrare che la creatività ha mille sfaccettature, anche sul verde.
Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Legno vecchio e poesie di mare

Le vele d’epoca degli yacht 15 metri stazza internazionale in una sera d’autunno a Portofino. La montagna rinfresca l’aria tra le case che non perdono i colori, semmai li fondono con le ombre che scendono dal bosco vicino. Le barche in porto sono allineate all’ormeggio con la prua verso il mare aperto. Le luci sui loro alberi sostituiscono le stelle nel cielo plumbeo. Le sartie si stiracchiano e il legno degli scafi respira, sono le voci di queste signore del mare che stanno raccontandosi le imprese della loro vita. Sono solo a passeggiare sul molo e origlio. 


Ne hanno di esperienze da raccontare. La più anziana, Mariska, è del 1908. Non posso non pensare a questi 106 anni che hanno visto il secolo più travagliato dell’uomo, lo stesso in cui mani sapienti hanno creato e mantenuto uno scafo che sembra la forma lignea dell’onda perfetta. Curioso no? La stessa mano che distrugge e crea.

Una targa al suo interno elenca i nomi dei suoi proprietari, ma quello attuale non vuole definirsi tale. “L’ho solo in consegna prima di passarla al prossimo che la condurrà per mare”, ha raccontato a cena. È il principio della sostenibilità, mantenere non per consumare ma per permettere a chi viene dopo di beneficiarne. Di una barca, del vento, della Terra. Così quando mi invitano a bordo e appoggio i piedi nudi sul ponte in teak avverto sotto di me il mare, il fondale, Gaia.
Tra le persone che hanno vissuto con Mariska anche un pianista. Ne aveva fatto la propria casa e le foto in bianco e nero ritraggono un uomo felice in tutto quel legno. Se mi metto a guardare le insegne degli altri gioielli galleggianti non posso non notare simboli di altri uomini meno anonimi, la corona del Re di Spagna e i colori dei principi Ranieri. Leggo le storie e trovo anche i nomi degli Agnelli, dei Rothschild e di un pezzo di Europa.


Poi, col giorno, le belle signore prendono il largo. Sanno di essere uniche al mondo ma salpano con calma. Poi in mare aperto corrono e sembra che la fatica non le riguardi. Stanno gareggiando sullo sfondo del parco che divide il Golfo di Genova dal Tigullio. Il Portofino Rolex Trophy è la manifestazione che lo Yacht Club Italiano, con la maison orologiera, dedica alle barche che hanno fatto la storia dello yachting mondiale. Sfilano con gli scafi affusolati e 400 metri di vele spiegate a raccogliere la più flebile delle brezze.


Le quattro “sorelle centenarie” MariskaHispaniaTuiga e The Lady Anne appartengono alla famiglia dei 15 metri stazza internazionale e sono accompagnate dalle cugine minori, 12 metri. Tutte ingaggiano un duello dove non scorrerà sangue. È la loro specialità. Le signore son abituate a sfidarsi in mare, salvo poi affiancarsi in porto. E ne sono passati di porti attorno ai loro alberi maestosi. 


La storia che le riguarda è cominciata nel 1908 quando il re Alfonso XIII di Spagna commissiona all’architetto navale William Fife uno yacht di quella che era la classe più all’avanguardia dell’epoca: nasce così Hispania II, varata nel 1909. La barca partecipa a numerose regate e trova un’agguerrita avversaria nella velocissima Mariska. Nel 1909 un amico del re diventa il suo primo e più competitivo rivale. Luis Fernández de Córdoba y Salabert, dodicesimo duca di Medinaceli, si fece costruire Tuiga, dandole il nome swahili delle giraffe per ricordare la sua passione per l’animale che svetta nella savana come il suo scafo svetta sul mare. La leggenda narra che a volte, durante le regate, il duca lascasse le vele per rallentare e lasciar primeggiare il suo sovrano. Quando si dice stile.


La regata è finita, tutte rientrano in porto e i colpi di cannone celebrano la vincitrice. Una Portofino molto diversa dal turistificio dei giorni di punta le abbraccia. Guardo le barche abituate a farsi ammirare e mi convinco ancora una volta che la vera eleganza non abbia età. Ma c’è qualcosa in più. Questi legni da 100 anni assecondano il vento. La scia bianca che lasciano dura solo un attimo prima che il mare la richiuda alla loro poppa. Si muovono senza tracce del proprio passaggio. Una bella lezione vecchia di un secolo ma tanto attuale.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.


17000 celle per prendere il volo

L’aereo Solar Impulse vola da solo usando la luce e tenta il giro del mondo. Non è fantascienza. Ben 17000 celle solari coprono due ali più lunghe di quelle di un Boeing 747 o un Airbus 380. Non ha l’aspetto di una frastornante balena volante in grado di ingoiare centinaia di passeggeri con i relativi bagagli. Sembra piuttosto un grande insetto, con le ali a sostenere una piccola cabina centrale e quattro silenziosissimi motori. La sfida è aperta e la data fissata. Questo aereo vuole fare il giro del mondo usando solo l’energia del sole e neanche una goccia di carburante.

C’è davvero bisogno di imprese del genere? Beh, sì. La ricerca passa anche da qui. Bertrand Piccard è il rampollo di una famiglia di pionieri e ha già trasvolato il pianeta su un pallone aerostatico. Dopo il successo con il vento, ora ci riprova col sole. È riuscito a riunire i capitali per costruire un aereo mosso solo col fotovoltaico, miracolo di tecnologia che i grandi costruttori di aeroplani avevano negato potesse vedere la luce oggi. Non a caso nessuno dei loro nomi figura tra gli sponsor o i supporter tecnici.

A112 anni dal primo volo dei fratelli Wright, questa macchina volante tenterà l’impresa nel 2015. Con i suoi 70km/h e le tappe tecniche, impiegherà cinque mesi a fare il giro del pianeta, non segnerà nessun record per la velocità ma sarà una tappa miliare per la tecnologia. Il valore aggiunto, uno dei, è che questo giocattolone è in grado di volare anche di notte. I test sono stati finora tutti positivi, compresa la trasvolata USA da San Francisco a NYC.

Se domani riusciremo davvero a staccarci dal suolo e rimanere in aria senza emissioni abbastanza da girare il nostro pianetino azzurro, non avremo scusanti per fare di più e meglio nell’applicare le tecnologie del solare per spostarci al suolo. Aspetterò con il naso all’insù.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Le balene spiaggiate non sono (solo) i ciccioni sotto l’ombrellone

Abbiamo letto dei cetacei finiti spiaggiati a Vasto. Su sette, purtroppo solo 3 sono riusciti a riprendere il largo. Il fenomeno è tutt’altro che infrequente e spesso la salvezza di questi mammiferi dipende anche dalla prontezza di chi si trovano di fronte sulla spiaggia. I filmati ricordano ancora  l’episodio di Arraial do Cabo in Brasile, quando alle 8 del mattino circa 30 delfini finirono arenati e furono salvati da chi si trovava sull’arenile. Purtroppo non si tratta di un evento raro.

Da una stima sommaria sono qualche migliaio all’anno i cetacei che finiscono a terra e muoiono poi per disidratazione o perché si copre lo sfiatatoio. Cito dal sito dell’università di Pavia:

Lo spiaggiamento, singolo o in massa, di cetacei è un fenomeno ormai conosciuto da tutti e da molto tempo. Le cause che determinano lo spiaggiamento di animali vivi sono al centro di un dibattito aperto che dura ininterrottamente ormai da molti decenni. Le teorie sono varie, ma si può con ragionevole prudenza affermare che tale evento può essere provocato di volta in volta da cause diverse, singole o combinate. Pertanto cause individuali, patologie o comunque situazioni di difficoltà individuale, possono indurre un animale a portarsi in prossimità della costa alla ricerca di un bassofondo sul quale appoggiarsi per poter respirare senza eccessivo sforzo. Se l’animale appartiene a una specie dal comportamento sociale particolarmente sviluppato, può succedere che gli individui del branco seguano fino a terra quello o quelli di loro che sono in difficoltà. Certamente anche cause ambientali, quali ad esempio anomalie locali nel campo geomagnetico, al quale sembra che i cetacei siano sensibili, possono provocare fenomeni di spiaggiamento talvolta anche massiccio.

Nei gruppi, chi decide la rotta è il capobranco, se questo si smarrisce, tutto il resto della comunità è a rischio, almeno finché un altro capobranco non prende la guida. Succede anche per l’uomo, del resto, ma questa è un’altra storia. Nell’alto Tirreno, area conosciuta come il Santuario dei cetacei, c’è un capobranco, anzi una, che è una celebrità. Da circa 15 anni, Matilde accompagna i suoi delfini in prossimità della costa della Versilia e, a distanza di sicurezza, offre spettacolo a chi decide di dedicarsi al whale watching.

Una nota a favore dell’Italia: siamo l’unico paese del Mediterraneo e dell’Europa ad avere organizzato e attivato una rete nazionale per il monitoraggio degli spiaggiamenti dei cetacei e a pubblicarne un consuntivo annuale. La segnalazione di animali spiaggiati da parte dei cittadini deve essere fatta alla Capitaneria di Porto di zona oppure attraverso il numero blu 1530. In questo modo viene tempestivamente attivata la catena operativa creata da Ministero dell’Ambiente e Ministero della Salute per il recupero e lo studio degli animali spiaggiati.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Marche, vai a meditare sull’infinito

La colpa, o il merito, sarà anche di Leopardi, ma ogni volta che mi capita di andare nelle Marche ci casco. Ogni siepe, ma aggiungo ogni albero o ogni muro in mattoni e pietra, diventa l’appoggio per il mio infinito. Non è un caso che da ogni rilievo di questa regione si veda la distesa azzurra dell’Adriatico. Allora, approfittando dell’estate agli sgoccioli, provo a suggerirvi un itinerario qui  tra natura e spirito.

Lasciando Ancona, puntate dritti nell’entroterra e arrivate a Cingoli, tanto per rendervi conto da uno dei punti più panoramici di come le Marche siano modellate. Vi sembrerà di cavalcare la cresta di una mare di quiete onde verdi. Qui non mancate di godervi la tela di Lorenzo Lotto per la quale Napolitano in persona chiamò il sindaco pregandolo di prestarla alla mostra delle scuderie del Quirinale. “Senza la vostra opera – disse il Presidente – la mostra non sarebbe la stessa”. La Madonna del Rosario vi aspetta nella chiesa di San Domenico e il vostro sarà un incontro estraneo alle masse. Voi e Lotto, soli, non capita tutti i giorni. Apprezzerete anche l’avveniristico sistema di illuminazione offerto da una ditta leader italiana.

Su stradine solitarie, scendete poi verso la provincia di Macerata. Qui perdetevi tra San Severino Marche e Camerino. Castello sulla vetta del colle, piazza ellittica a valle, godevolissimo museo e l’incanto di San Lorenzo in Doliolo per il primo borgo. Brio universitario, il delizioso teatro Marchetti, il gioco di portici del palazzo ducale affacciato sui giardini per il secondo. Proseguendo in direzione di Tolentino, l’abbazia di Chiaravalle di Fiastra è circondata dalla omonima riserva e offre anche ospitalità.

Tornando verso la costa, sarebbe un peccato non fermarsi a Montecosaro. I motivi sono due. La chiesa di Santa Maria a Pie’ di Chienti è un gioiello romanico a due piani sovrapposti, originalissima nelle sue forme. Il paese a monte è un abbraccio di case dal quale la vista spazia tra l’Appennino e il Conero. Il Museo del cinema a pennello a ridosso della porta che immette nel borgo è l’occasione per toccare con mano cimeli del grande schermo, italiano e non. Mi sono lasciato incantare dalla bombetta di Totò e dal manifesto originale di C’era una volta il west accompagnato dallo spartito autografo di Morricone.

Rientrando in direzione di Ancona, la tappa d’obbligo è nella Basilica Pontificia di Loreto. Qui tutto ricorda il Vaticano, compresa la loggia dalla quale di affacciò San Giovanni XXIII inaugurando la stagione dei Papi viaggiatori. Da qualche mese è agibile il percorso degli spalti, unico in Italia per raccontare le dinamiche difensive di una basilica fortificata. Se a Loreto tutto parla di maestosità, una sosta a Portonovo riporta all’essenzialità romanica, con i sassi bianchi cullati dal rumore delle onde.

Il vantaggio di un percorso del genere è quello di poter essere praticato in tutte le stagioni. Mi piace anche perché trovo sempre una pensione o un b&b pronti a calarmi nell’altra dimensione del sentimento marchigiano, quella che soddisfa il palato con i suoi gusti indimenticabili. Che la via per conciliare spirito e carne passi proprio da qui?

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.