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Un popolo perso tra i due mari, il Salento misterioso sulle tracce degli antichi Messapi

Questo articolo è pubblicato anche su Il Corriere della Sera

L’alba è solo una striscia lattiginosa in cui galleggia una palla infuocata. Al di qua del mare, sotto un cielo cobalto, le mura della città si colorano appena la luce inizia a gocciolare disegnando i blocchi in pietra che circondano la porta sotto l’occhio delle sentinelle. Dal porto stanno già salendo i pescatori con le casse ancora guizzanti. Nelle vie, il brusio del mercato e le ruote dei carri dicono che i contadini sono già arrivati per vendere la fatica dei loro campi. La scena è di nove secoli fa, la terra è l’estremità sud-orientale della Puglia e il popolo è quello dei Messapi. Non provo neanche a ricordarli dal libro di storia. Non ce la farei a collocarli nella geografia di quelle genti che, pur destinate ad essere assorbite nel territorio di Roma, hanno lasciato tante e tali tracce da richiamare studiosi da tutto il mondo e far appassionare i dilettanti dell’archeologia come me. C’è un fatto che però sorprende tutti. Questa terra è bella oggi come allora.

Castro è un nido di tufo sulla cima di un promontorio che affonda le radici nel blu dell’Adriatico. Per congedarsi dal corridoio blu iniziato nella lontana Venezia, ci incanta con i riflessi magici delle grotte di cui la Zinzulusa è solo la più famosa. Raggiungibile anche col mare mosso grazie a una scalinata, l’ingresso nella terra ha un che di sacrale, come se il rumore delle onde fosse lo spunto per ricordare che in questa parte dell’Italia, la distinzione tra terra è acqua è solo una formalità. Il suo nome deriva dalle numerose stalattiti e stalagmiti che nel dialetto locale sono chiamate «zinzuli», ovvero stracci. La porta che immaginiamo baciata dal sole di un mattino antico non si vede dall’ingresso della grotta, bisogna uscire e aguzzare la vista nella scorpacciata di verdi della vegetazione. I colossali massi perfettamente incastrati fanno pensare alle civiltà megalitiche di certe isole greche, Micene su tutte.

Il picchiettio degli studiosi al lavoro è solo la scusa per infilarsi tra le vie e scoprire, tra gli scorci, quel panorama che con un colpo d’occhio attraversa il mare fino all’Albania. Forse è da lì che sono arrivati i Messapi, popolo di origini illiriche. Il dubbio è d’obbligo perché, in quel meraviglioso melting pot che è il Mediterraneo, la loro origine non ha una precisa collocazione. Il toponimo Messapia fu probabilmente coniato per la prima volta dagli storici greci col significato di «terra tra i due mari » e ben si sposa con quel Salento che è davvero un ponte di olivi e vigne gettato nel blu.

Vaste è l’antica Basta di cui si rinvengono notizie nelle opere di Plinio. È uno dei siti più interessanti per la quantità e la qualità dei reperti che gli scavi hanno restituito al sole di questa terra meravigliosa. Parecchi anni di studio e molte campagne di scavo dell’Università di Lecce hanno permesso di delineare il mondo messapico pur con l’alone di mistero che lo circonda, a partire dalla complessa decifrazione di una lingua la cui pronuncia è ancora ignota. È ben chiaro che qui c’erano città grandi e ben fortificate.

Salendo sul balcone panoramico del Parco del Guerriero, nella frazione di Poggiardo, i 77 ettari dell’insediamento si leggono nelle tracce del doppio muro di pietre che conteneva il terrapieno all’epoca del massimo sviluppo, ipotizzato nel IV sec. a.C. Qui si trova anche una riproduzione dell’ingresso dell’ipogeo delle Cariatidi, ritrovato in quella che era l’area funeraria e oggi centro storico dell’abitato. Le statue originali sono al museo Castromediano di Lecce e al museo Nazionale di Taranto, ma il cinquecentesco Palazzo Baronale affacciato sulla piazza ben rappresenta esempi del tipo di reperti ritrovati nell’area. Stesse imponenti dimensioni si ritrovano anche se si procede in direzione di Lecce. Il capoluogo del Salento che conosciamo per lo splendore barocco, è città messapica. Per rendersene conto basta avvicinare il museo della città, non prima di aver però sostato a Cavallino.

C’è qui un museo diffuso che ripropone una passeggiata difficile da ripetere altrove. Incamminandosi sui tracciati si arriva alle estremità dell’antico abitato. Circondati dall’erba alta, ci si perde nel tempo scoprendo che le porte della cinta muraria hanno ancora lo scavo del passaggio delle ruote dei carri, mentre i pilastri rivelano la presenza lontana dei cardini. Il vento della piana che porta il profumo di terra e cielo pulito appiattisce gli steli ma non alza il sipario sulla contaminazione contemporanea. Il significato profondo del popolo messapico però sta più a sud. Sulla strada per Leuca c’è Tricase, il centro più grande del Capo di Leuca e uno dei più popolosi del Salento. Qui il medioevo è stato una catena di passaggi di feudo che ha lasciato un centro storico d’incanto che le guide turistiche spesso trascurano. Sedersi sul sagrato della chiesa in piazza Pisanelli e ascoltare le rondini è un inno alla vita. Non distante, in direzione del mare c’è la Quercia Vallonea.

Nell’Italia che spesso dimentica i monumenti con radici e rami, questo albero ha sette secoli e una chioma che, si dice, fu in grado di ombreggiare cento cavalieri. Arrivati a Santa Maria di Leuca, la spianata tra il santuario e il faro è un messaggio. La terra finisce, il Bel Paese è tutto alle mie spalle e non riesco a non pensare a un unico meraviglioso sentiero che inizia a Vipiteno e finisce su queste scogliere dove nidificano i gabbiani. Così mi rendo conto di cosa erano i messapi ieri e cosa siamo noi oggi. Ci piaccia o no, custodi di una porta tra le civiltà che i salentini sanno aprire per farsi trovare a braccia aperte. Tutto qui, davvero tutto, ha il sapore di un ritorno a casa.

Questo articolo è pubblicato anche su Il Corriere della Sera