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Le balene spiaggiate non sono (solo) i ciccioni sotto l’ombrellone

Abbiamo letto dei cetacei finiti spiaggiati a Vasto. Su sette, purtroppo solo 3 sono riusciti a riprendere il largo. Il fenomeno è tutt’altro che infrequente e spesso la salvezza di questi mammiferi dipende anche dalla prontezza di chi si trovano di fronte sulla spiaggia. I filmati ricordano ancora  l’episodio di Arraial do Cabo in Brasile, quando alle 8 del mattino circa 30 delfini finirono arenati e furono salvati da chi si trovava sull’arenile. Purtroppo non si tratta di un evento raro.

Da una stima sommaria sono qualche migliaio all’anno i cetacei che finiscono a terra e muoiono poi per disidratazione o perché si copre lo sfiatatoio. Cito dal sito dell’università di Pavia:

Lo spiaggiamento, singolo o in massa, di cetacei è un fenomeno ormai conosciuto da tutti e da molto tempo. Le cause che determinano lo spiaggiamento di animali vivi sono al centro di un dibattito aperto che dura ininterrottamente ormai da molti decenni. Le teorie sono varie, ma si può con ragionevole prudenza affermare che tale evento può essere provocato di volta in volta da cause diverse, singole o combinate. Pertanto cause individuali, patologie o comunque situazioni di difficoltà individuale, possono indurre un animale a portarsi in prossimità della costa alla ricerca di un bassofondo sul quale appoggiarsi per poter respirare senza eccessivo sforzo. Se l’animale appartiene a una specie dal comportamento sociale particolarmente sviluppato, può succedere che gli individui del branco seguano fino a terra quello o quelli di loro che sono in difficoltà. Certamente anche cause ambientali, quali ad esempio anomalie locali nel campo geomagnetico, al quale sembra che i cetacei siano sensibili, possono provocare fenomeni di spiaggiamento talvolta anche massiccio.

Nei gruppi, chi decide la rotta è il capobranco, se questo si smarrisce, tutto il resto della comunità è a rischio, almeno finché un altro capobranco non prende la guida. Succede anche per l’uomo, del resto, ma questa è un’altra storia. Nell’alto Tirreno, area conosciuta come il Santuario dei cetacei, c’è un capobranco, anzi una, che è una celebrità. Da circa 15 anni, Matilde accompagna i suoi delfini in prossimità della costa della Versilia e, a distanza di sicurezza, offre spettacolo a chi decide di dedicarsi al whale watching.

Una nota a favore dell’Italia: siamo l’unico paese del Mediterraneo e dell’Europa ad avere organizzato e attivato una rete nazionale per il monitoraggio degli spiaggiamenti dei cetacei e a pubblicarne un consuntivo annuale. La segnalazione di animali spiaggiati da parte dei cittadini deve essere fatta alla Capitaneria di Porto di zona oppure attraverso il numero blu 1530. In questo modo viene tempestivamente attivata la catena operativa creata da Ministero dell’Ambiente e Ministero della Salute per il recupero e lo studio degli animali spiaggiati.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Catastrofi: dobbiamo imparare cos’è un medicane

Si leggono contemporaneamente di catastrofici effetti sul clima portati agli estremi delle alte temperature o di imminenti glaciazioni. Il denominatore comune tra le due teorie è il disastroso effetto che sta modificando il modello climatico, probabilmente influenzato anche dalle attività umane.

Entrambe le previsioni condividono previsioni affatto ottimistiche per l’area del Mediterraneo. Filippo Giorgi, unico scienziato italiano presente nell’organo esecutivo del Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (IPCC) oltre che vincitore del Premio Nobel per la pace 2007 insieme ad Al Gore, in una intervista su Vanity Fair si esprime anche alla luce dei recenti eventi che hanno sconvolto la Sardegna chiarendo che le popolazioni del Mare Nostrum dovranno familiarizzare prima possibile con il neologismo “medicane”, composto da Mediterraneo e hurricane (uragano in inglese).

Non aumentano la frequenza degli eventi, sostengono all’IPCC, ma la loro intensità. Non pensiamolo come a un problema lontano, perché i modelli di studio affermano che le zone più esposte alle formazioni e eventi di portata catastrofica per entità delle precipitazioni sono entrambe in Italia, precisamente nel Golfo di Genova e in Sicilia.

Ci sono due aspetti positivi, se vogliamo coglierli, per le azioni di rimedio del futuro. Il primo, macroeconomico, è che secondo Giorgi non siamo al punto di non ritorno. Se riusciremo a contenere le emissioni di CO2 e di gas serra in atmosfera riusciremo a contenere anche l’aumento del 2% della temperature, ma dobbiamo agire presto, non oltre il 2050.

Il secondo, di carattere ambientale, concerne il dissesto idrogeologico che in Italia è un cancro di cui troppi amministratori si sono disinteressati benché responsabili. Possiamo agire sulla certezza della pena e sull’obbligo di ripristino con sanzioni anche pecuniarie che dovrebbero essere un disincentivo concreto per chi, dietro scrivanie importanti, deve riflettere prima di apporre firme di comodo su edifici e opere inutili. Licenziare qualcuno in tronco e mandarlo a spalare fango non sarebbe una cattiva mossa. I morti, purtroppo non li ripaga nessuno, ma sapere che almeno qualcuno ha pagato limiterebbe (forse) prossimi disastri.

Il gasdotto sotto la bandiera blu

Melendugno, un angolo di Salento dove il mare ricama tra le scogliere strisce di sabbia dall’acqua cristallina, il depuratore non scarica in mare i reflui ma utilizza la fitodepurazione in zone umide interne in cui fanno tappa gli stormi migratori, la pineta lambisce il paese sul quale sventola la bandiera blu facendone una perla del turismo pugliese. Bello vero?

Ora resettate. Melendugno, terminale costiero di arrivo del gasdotto intercontinentale TAP (Trans Adriatic Pipeline), di cui sono iniziati proprio ieri i sondaggi. Bel cambio di prospettiva, non trovate?

La società incaricata dichiara che tutto il processo ha seguito l’iter burocratico previsto. E ha ragione. Ma siamo sicuri che valga la pena sconvolgere per qualche anno il tratto di costa, costruire la struttura (anche se, garantiscono dalla società, avrà un basso impatto) e fare di un pezzo di Salento un terminale per risorse energetiche non rinnovabili provenienti dal Mar Caspio e dirette poi verso l’Austria (l’hub di distribuzione del gas è oltralpe) ?

La maggioranza dei sindaci si schiera a fianco al comitato NO-TAP e ha commissionato un’indagine a personale tecnico competente in materia. Ho potuto intervistare uno dei componenti della commissione.

«Ci sono diverse ragioni che dovrebbero scoraggiare l’approdo del gasdotto qui – sostiene l’ingegner Alessandro Manuelli – Dal punto di vista morfologico, la scarpata marina che fronteggia la costa obbliga l’aumento della pressione del gas nella condotta il cui diametro sarà di un  metro. La zona è ricca di Poseidonia alla base della catena alimentare marina. L’area è ad elevato rischio sismico. Non bastasse: non è stato stilato nessun piano dei rischi né un albero delle conseguenze in caso di incidente.»

Rincara la dose il comitato NO-TAP, nel quale affermano che, stando ai piani pubblici visionati, sarà sbancata un’area di pineta e parecchie centinaia di olivi secolari per nascondere sotto terra il danno ambientale di una condotta. Come dire: per non farmi un danno alla mano, me la taglio. Il problema è la sfumatura decisionale che passa dal NO secco locale all’approvazione romana dell’opera, definita “strategica”. In molti, nel Salento, si domandano peraltro come mai i sondaggi di compatibilità si effettuino solo ora, a progetto presentato. Le perplessità ci sono anche sul piano socio-economico.

«Non possiamo venderci oggi il futuro dei nostri figli – dichiara la giornalista Carmen Mancarella – qui c’è gente che vive di turismo e in molti hanno scelto di non emigrare per investire nella nostra terra, farne un mestiere per portare qui gente e condividerne la fortuna di un ambiente con tutti i numeri per fare turismo di qualità. Non voglio andare a fare la cameriera in Australia dopo che mi sono battuta per promuovere la mia regione sperando di costruire un futuro per Salvatore, Carlo e Giuseppe, i miei figli».

Signori politici di Roma e signori Tap, in un’epoca dove si punta sulle fonti energetiche rinnovabili, non posso non condividere questa posizione.

Siamo sinceri: andreste mai al mare in un posto sul cui depliant ci fosse scritto “mare blu, scogliere suggestive, campagne con ulivi secolari e un nuovissimo gasdotto intercontinentale”? Piuttosto, senza estremismi: poco più a nord verso Brindisi c’è una centrale a carbon fossile. Non si potrebbe variare di qualche grado l’inclinazione del gasdotto nel punto in cui si immerge in Albania e farlo spuntare là dove si potrebbe sostituire il carbone col gas e trasportare poi energia anziché combustibile? E poi, in ogni caso, mi piacerebbe dare un’occhiata all’analisi costi benefici, per capire anche quanto costa il tutto e quali saranno i vantaggi reali.

Se mi domando chi a Roma ha analizzato l’opera, temo di conoscere la risposta. Signori,  una preghiera, prima di ogni futura decisione, fatevi un giro in Salento. Sono certo che vi basterà affacciarvi alla scogliera per capire tutto.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Il tuffo di Assad nel mare pattumiera

La Siria distruggerà il proprio arsenale chimico. In mare. Avete letto bene. Il piano sarebbe americano. Dopo il “no” dell’Albania ad ospitare sul proprio territorio le operazioni di bonifica (e, lo ammetto, sono curioso di sapere dove sarebbero stati gli impianti per rendere innocuo il micidiale Sarin a così pochi chilometri da noi) l’opzione dei super-controllori a stelle e strisce sarebbe quella di rendere le sostanze chimicamente inerti su piattaforme o navi in acque internazionali.

Pensi alla posizione della Siria e rifletti che il mare più vicino è… già, il Mediterraneo. In alternativa ci sarebbe un sistema mobile sofisticato basato sull’idrolisi. L’unico ispettore italiano tra gli osservatori è l’ingegner Silvestro Mortillaro.«È una tecnologia che non conosco – afferma il tecnico – La distruzione in mare è una tecnologia impegnativa, ma permetterebbe di aggirare le proteste ed è un grosso vantaggio se si ha fretta.»

La fretta non è mai una buona consigliera però.
I residui del processo di distruzione, tra cui la diossina, possono finire in mare e nella catena alimentare degli oceani – precisa Jean-Pascal Sanders, esperto dell’EUISS, l’agenzia per la sicurezza europea.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.