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Alan Turing – The imitation game

Avete presente Alan Turing e il film The imitation game che racconta la sua storia ed è ora nelle sale?

Cinque anni fa vidi la macchina Enigma esposta al War Museum di Londra e mi colpì. Conoscevo la storia del matematico. E il trattamento che gli avevano riservato. Avevo anche sentito parlare del suo compagno Alistair. Così ho provato a immaginare un pezzetto di quella loro storia. Quello che non avevo immaginato è che dopo cinque anni dopo ne avrebbero tratto un film.

Se vi piace, potete diffonderla liberamente. Vi chiedo solo, per favore, di citare la fonte. Grazie.

Turing

ENIGMA (©2011 – Stefano Paolo Giussani)

Ad Alan Turing e Alistair Noon

King’s College, Cambridge, 1934.

Quel letto sarebbe stato normalmente troppo stretto per due persone. A vent’anni non sai ancora se preferisci stare vicino a chi dorme con te per scaldarti o avere lo spazio intorno per dormire allungandoti senza ostacoli. Loro erano di quelli a cui piaceva sentirsi vicini. Avevano l’abitudine di ascoltare il battito dell’altro tornare normale dopo l’amplesso. Al crepuscolo il più giovane sarebbe sgattaiolato nella sua camera in fondo al corridoio. Appena in tempo perché nessuno si accorgesse di nulla.

Stavano per ore affiancati così. Nudi. Con il sudore che raffreddandosi metteva voglia di stare più vicini l’uno all’altro. A cercare il calore della pelle dell’amico sulla propria. La stanza era rettangolare. Su un lato il letto. Di fronte un armadio e uno scrittoio sormontato da una piccola libreria. I libri, disposti ordinatamente, erano tutti testi di aritmetica. Un orologio era appoggiato su uno dei ripiani. Il suo ticchettio segmentava l’aria immobile del college. Il soffitto seguiva l’inclinazione del tetto, interrotta a metà da una grossa trave in legno. Per il più anziano, quella superficie spezzata era un puro esercizio geometrico. Un quadrato diviso in due rettangoli. Per il più giovane era invece una specie di finestra. Alla vista era chiusa, ma dietro quella grande anta in legno brillava un cielo pieno di stelle. Stelle che anche dalla finestra, quella dietro cui i rami del giardino balbettavano dal freddo, tremolavano con maggior intensità quando loro due erano assieme.

Alan era il matematico, Alistair il poeta.

È la nostra ultima notte assieme, disse Alistair sottovoce.

Chi può dirlo questo? rispose Alan come se stesse fissando qualcosa sul soffitto.

Lo sarà almeno per un po’. Parto per un giro in Europa.

Il matematico non se l’aspettava. Continuando a rimanere sdraiato girò la testa verso l’amico. Lo fissava infilarsi i boxer, la pelle raccoglieva il chiarore che filtrava dalla finestra e se lo spalmava addosso. Avrebbe voluto farlo lui. Quello in piedi si chinava a raccogliere le sue cose. La maglia, la camicia, le scarpe, tenute in mano. In quello stato di quiete notò che i piedi nudi facevano scricchiolare le assi nella stanza. La dita si distinguevano nella penombra sullo scuro del legno. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, i passi nel corridoio schiaffeggiarono il pavimento mentre si allontanava.

 

Oceano Atlantico, HMS Garland, primavera 1942.

Sul ponte della corvetta inglese due ufficiali e un civile scrutano l’orizzonte. Non è una linea precisa ma un contorno sfumato reso incerto dall’acqua sollevata dal vento e spazzata come polvere. In lontananza si intravede il sole schiacciato tra nubi e mare. Riempie una linea infuocata tra due tavole color cenere che solo in certi punti assorbono la luce al giorno, si illuminano e vorrebbero incendiarsi.

Signor Turing, i nostri hanno iniziato a trasmettere. Ci affiancheranno entro pochi minuti. La voce del marinaio sopra di loro riesce appena a superare il rumore delle onde che sbattono sulla fiancata della nave. Gli ufficiali impugnano i loro binocoli puntandoli verso una unica direzione. Alan Turing ancora non distingue nulla e socchiude le palpebre per resistere alla raffiche di salsedine.

Dal centro della nave un gruppo di uomini si prepara a calare in mare una lancia. Un uomo in uniforme da ufficiale al fianco dell’unico in abiti civili gli indica un punto in mezzo all’oceano. Una luce. Sembra ancora lontana. La lontananza dell’orizzonte e le nubi basse non gli permettono di valutare la distanza. Negli elementi instabili del piano marino, tutto è precario. Non c’è verso di avere un fulcro nell’acqua. Sono colline liquide che si muovono alzando e abbassando la lancia ormai staccata dalla nave da guerra. L’unico punto stabile per Alan è la murata della corvetta. Sembra resistere indifferente all’acqua e al vento.

Il faro che prima era lontanissimo e spariva tra le onde, ora lampeggia tra gli spruzzi. Si avvicina.

Si distingue avanzare una sagoma scura. Fende la superficie rimanendo sul pelo dell’acqua. È un sommergibile. Il ponte è coperto dall’acqua, scivola indisturbato tra lievi colline fluide. Gli ricorda uno di quei grossi tronchi durante le mareggiate invernali, quando dalla scogliera si vedono galleggiare mentre lasciano passare sotto di loro onde grosse come montagne. Solo la torretta emerge dall’acqua mentre sulla sua cima si muovono mezzi busti di uomini. Si capisce che c’è una certa attività ma non si distingue cosa stanno facendo.

Ora le due navi sono quasi affiancate. Sul ponte della corvetta si sente un borbottio. È il motore diesel del sommergibile che a tratti gorgoglia sotto la superficie dall’acqua. È un rumore pigro che sfuma nei fischi delle raffiche del vento.

Alcuni dei marinai della torretta scendono sul ponte. Uno a fianco all’altro formano una catena e coprono la distanza fino alla scialuppa che adesso tocca il sommergibile. In balia delle onde e sospeso tra le due navi il motoscafo sembra ancora più piccolo. In certi momenti sembra debba essere ingoiato dalle onde, che però lo sputano subito dopo. Gli uomini si scambiano dei pacchi. Verso il sommergibile si distingue quello della posta. Alan pensa che probabilmente quegli uomini sono in missione da parecchio tempo. Una grossa scatola scende invece di mano in mano dalla torretta fino al motoscafo. È una cassa, distingue bene le assi che segnano la forma di un parallelepipedo. Gli uomini la appoggiano sul pavimento. Usano una delicatezza inusuale per dei marinai che ti aspetti abituati agli schiaffi dell’oceano, la trattano come se fosse un oggetto fragile. L’uomo a poppa piega con decisione la barra del timone e ridà gas al motore. Il piccolo scafo si allontana veloce per tornare verso la corvetta, come un bambino che ha fretta di scappare dal nuovo arrivato per tornare dalla mamma. Il tempo di fissarlo mentre spancia sull’acqua sotto di loro e Alan nota che anche il sommergibile è ripartito. È già lontano, al termine di una scia di schiuma che ribolle tra le onde infrante. Sta per scomparire, discreto come si era avvicinato.

Nel quadrato degli ufficiali la cassa è appoggiata sul tavolo. La sagoma regolare è illuminata dalle luci sul lato anteriore. Risalta sulla parete scura. Ha quasi l’aspetto di un altare all’interno di uno spazio sacro. Sacerdotale è anche il silenzio. Sul fronte della cassa una sola scritta: for intelligence use only.

Il comandante con un cenno della testa indica ai due marinai di aprire la cassa. Delicatamente, ragazzi. Da quel pezzo di legno dipende la guerra, dice loro mentre infilano le mani tra i legni. Le braccia nude si gonfiano mentre la estraggono. L’oggetto è pesante, esce lentamente dal contenitore.

Un telo mimetico avvolge una specie di macchina da scrivere. Ha una tastiera, ogni tasto marchiato con una lettera o una cifra. L’occhio immobile di un’aquila nazista nella parte superiore sostiene e ricambia lo sguardo di tutti. Ora è affar suo, mister Turing, aggiunge il capitano mentre continuano a fissare l’oggetto al centro della stanza. Alan si scambia un’occhiata con l’unico uomo che indossa un’uniforme diversa da quella della marina. Dev’essere dello stato maggiore.

Signori, ora potete lasciarci soli, dice l’ufficiale. Come Alan, anche lui dipende dalla Hut8. Sono criptoanalisti del ministero della guerra. Devono rompere il più grande segreto della marina tedesca. Il codice Enigma, il linguaggio cifrato con cui comunicano le navi di Hitler.

 

Quartier Generale Hut8, Bletchley Park, Autunno 1944.

I numeri sono dati oggettivi, non hanno bisogno di interpretazioni. Le parole sì. Hanno più di un significato. Una stessa parola cambia a seconda di come la pronunci o la ordini in una frase. Un matematico e un poeta, per questo, non potranno mai andare d’accordo.

Alan pensava questo prima di incontrare Alistair. Poi aveva scoperto che il cuore era una specie di denominatore comune che poteva far dialogare i due universi. Matematica e poesia erano diverse ma riuscivano a parlarsi.

Nel mezzo dell’oceano lui, il matematico diventato per necessità criptoanalista, si era trovato di fronte alla macchina che decifrava segnali. Ci aveva lavorato sopra da subito. Giorni e notti. Aveva imparato a prevenire le mosse del nemico. Raccoglieva informazioni. Salvava vite. Creava le condizioni perché ne finissero delle altre. Erano anche quelle addizioni e sottrazioni. La morte di un marinaio è una tragedia per una famiglia, l’affondamento di una nave con mille uomini è solo una statistica. Operazioni matematiche di guerra calcolate solo spostando carte e senza mai abbandonare l’edificio vittoriano tra le piante secolari nella campagna di Londra.

Da qualche parte sulla costa del continente aveva immaginato Alistair in una strada a combattere. All’inizio della guerra sapeva che lo avevano visto lanciare bombe tra le milizie popolari contro l’alziamento dei generali in Spagna. So bene che lotto per qualcosa che non durerà. Nessun futuro è per sempre, gli aveva detto il poeta prima di partire. Spesso sente ancora quelle parole, la voce dell’amico gli echeggia nella testa. Era stato il suo commiato appena prima di partire. Prima di uscire scalzo dalla stanza.

Io combatto per il mio passato, perché un po’ di me riposi intatto in quello che è accaduto. Era il suo modo per scendere in campo. Immediato, sanguigno, per lui era perfino naturale, come un verso di una poesia. Lasciar scorrere il sangue nelle vene fino alle mani. Lasciare che il fluido bollente le muovesse nel combattimento. Per questo si era unito a un gruppo di catalani.

La Catalogna, gli aveva scritto poi, è un posto perfetto per i poeti.

Ormai erano cinque anni che non aveva più sue notizie.

 

Nella stanza Alan è solo. È appena tornato da una corsa sotto la pioggia. Gli piace correre. Sulle lunghe distanze ha una buona resistenza. Lo aiuta a pensare. Lo aiuta a sfogarsi.

È completamente sudato. Si toglie la maglia fradicia e la butta a terra. La lascia a fianco alle scarpe nel centro di una pozza. C’é un tavolo nella stanza. In mezzo alle carte sparpagliate c’è una tunny. È una delle macchine del codice Enigma. Ormai le chiama con confidenza, le conosce fino all’ultimo degli ingranaggi. Il codice è rotto da tempo. Per questo alcuni lo chiamano “Il genio della matematica”. Il cono della lampada sul soffitto illumina l’apparecchiatura da sopra, senza lasciare ombre. È quella arrivata con il sommergibile nell’Atlantico, la prima trovata. Puzza ancora di carne bruciata. Ha letto poi nei rapporti che c’era stato un incendio a bordo della nave tedesca durante l’attacco. L’odore è forse di qualcuno che è morto vicino alla macchina. Immagina un giovane marinaio cresciuto sulla costa tedesca. Forse non gliene fregava perfino niente della guerra. O forse era un invasato del nazismo e ha difeso fino in ultimo il segreto.

Ogni tanto torna a toccare la macchina. Quando si muovono i tasti, i rumori metallici si susseguono in un incastro perfetto di suoni. Sono rumori affilati nel silenzio della stanza. Alcuni più lunghi. Altri più brevi. Dipende dalla lettera. Ogni volta che schiaccia avverte una sensazione strana. Come di irreversibilità. Alan riflette come sia impossibile cancellare la lettera originata dal suono. Battuto un tasto non è più possibile tornare indietro. A… B… segni che si trasformano in suoni e scivolano nell’aria.

La guerra sta per finire e gli hanno permesso di tenere la macchina. Ormai sono riusciti a prenderne altre. Poi, a lui è concesso. È quello che ha rotto il codice. Forse anche per questo alla Hut8 lo trattano con rispetto. Sono perfino disposti a dimenticarsi certi suoi comportamenti. Sanno che preferisce gli uomini alle donne. Almeno nel suo letto. Se ne sono accorti quando ha detto di no a Joan Clarke. Una collega, un’amica. Agli occhi di tutti poteva filare. Non ai suoi, non avrebbe mai potuto essere un marito. Almeno per ora non gli possono fare nulla, lui è quello dell’Enigma.

 

A… B…. Due lettere su due tasti. L’inizio dell’alfabeto e le prime due lettere decifrate dalla macchina. A come Alistair. B come Barcellona. Un caso? La matematica non lo ammette. Lui, ora, sì.

È tornato ancora da una corsa. Sul tavolo c’è una busta aperta. La lettera è arrivata in mattinata. È di un amico comune. Conosce il fratello di Alistair.

È morto. A Barcellona. Su una barricata della città durante un attacco dei generali. È successo il 26 gennaio del 1939. Son passati 5 anni. Ne erano già passati 3 quando Alan era in mezzo all’oceano ad aspettare la sua prima tunny.

Alan vuole piangere. Sente il dolce di una lacrima mischiarsi col salato del sudore sul labbro. Ricorda l’ultimo abbraccio di Alistair prima di uscire dalla stanza del college, quei passi nudi nel corridoio. Pensa alle guerre così diverse di un poeta e un matematico.

La fiaba di Ferrino nella grotta della Strega Bavosa

Questa fiaba è diffondibile liberamente con qualsiasi mezzo citando la fonte:  www.stefanopaologiussani.it

 

E’ divisa in sette capitoli, come le sette sere di festa che ci separano dalla notte di San Silvestro.

 

©2013  Francesco, Matteo e Stefano Giussani – AgenziaGeografica

 

1

Ormai era una settimana che nevicava fitto fitto. Così fitto che gli alberi non ce la facevano più a reggere il peso e i rami facevano a gara per appoggiarsi a terra e non rischiare di rompersi. Ne era scesa talmente tanta che tutto era imbiancato e il soffice della neve si era mangiato perfino i rumori creando un mondo sottovoce.

Per questo, il TOC TOC sulla porta risuonò forte in tutta la casa. Nicolò chiuse di fretta il libro per vedere chi aveva sfidato la tormenta venendo a bussare alla loro porta, l’ultima prima del bosco. Si fermò sui primi gradini della scala, da dove vedeva Mattia che aveva raggiunto l’uscio prima di lui. Mattia era più grande di tre anni e ovviamente era stato più veloce. La porta aperta a metà lasciava intravedere un uomo con dietro la cascata di fiocchi che non smettevano di scendere.

Quando l’uomo domandò qualcosa e Mattia si fece da parte guardando verso la scala, anche Nicolò si girò e, non vedendo più nessuno dietro di sé, capì che il visitatore era venuto a chiedere proprio di lui.

Era Zanzone, il sindaco del paese, e teneva in mano un pacchetto. Raccontò che era successa una cosa molto strana. Dall’inizio della nevicata nessuno aveva più notizie di Ugo e Teo, i due giocattolai che abitavano nella casa a forma di torre vicino alla chiesa. Mandavano giocattoli in tutto il mondo vendendoli ai più bei negozi delle grandi città. Tutti facevano a gara per comprare i loro lavori e i due erano ben contenti di spedirli ovunque guadagnando. Se normalmente i loro giocattoli erano ben pagati, avevano però preso l’abitudine di regalarli ai bambini della loro valle. Nessun bambino viveva con loro, ma non c’era bambino in paese che non avesse ricevuto in regalo qualcosa fatto con le loro mani. Treni, bambole, carri, mulini. Non c’era oggetto che i due non sapessero riprodurre e ogni bambino e bambina delle sette frazioni sotto il monte Piangallina sapeva che, al compiere dei 9 anni, avrebbe ricevuto il suo regalo. Erano oggetti speciali, bellissimi, anche se erano fatti con gli scarti che la gente abbandonava o buttava.

«Tutto può avere una seconda vita» diceva sempre Ugo.

«Sta solo nel vederla con altri occhi» aggiungeva Teo.

Così giravano per cantine, solai e fienili a raccogliere oggetti abbandonati da trasformare. Dopo che passavano loro, quasi nulla andava buttato. La cosa straordinaria era che il giocattolo che veniva regalato diventava poi un’anticipazione del lavoro che ogni piccolo avrebbe fatto da grande. Chi aveva ricevuto in passato un forno fatto con dei vecchi scaldaletto era poi diventata la più brava pasticciera della capitale. Il bambino a cui avevano regalato un ponte costruito con le molle di un letto era ora un bravissimo ingegnere. La nave ricavata da un antico ferro da stiro era nella cabina di quello che nel frattempo era stato nominato capitano della più grande nave della flotta nazionale.

Ora erano spariti. La loro casa vuota. Il magazzino dei materiali deserto. La stanza degli arnesi senza più niente dentro. Niente, se non un burattino sbilenco fatto con tubi e bulloni e un biglietto con una scritta in una calligrafia strana che diceva “lui ci servirà perchè perfino un mostro sa crear” con a fianco un nome.

Nicolò!

2

A Nicolò mancava ancora un giorno per i suoi nove anni e il regalo che gli spettava. Perché se ne erano andati proprio ora? Zanzone non aveva risposta, ma credeva che incontrare Nicolò potesse aiutarlo in qualche modo. L’uomo attraversò il locale lasciando una scia di neve sul pavimento in legno. A vederlo col suo cappotto lungo e la corporatura massiccia, si aveva la sensazione  che si fosse messo a camminare uno dei covoni in paglia che in estate si vedevano in mezzo ai campi.

Tolti gli scarponi, davanti alla stufa accesa i piedi di Zanzone stavano scaldandosi mentre dalla cucina arrivava il profumo dei biscotti che la mamma aveva appena sfornato. Nella calza destra c’era un grosso buco che lasciava uscire il grasso dito e faceva ridere Mattia mentre Zanzone raccontava i dettagli. Mentre parlavano, il burattino in metallo era appoggiato a fianco alla stufa e la luce del fuoco faceva vibrare la sua ombra dando l’impressione che si muovesse per ascoltare quel che veniva detto.

“Quello non può essere il mio giocattolo” pensava Nicolò, perché non solo l’ometto era brutto, ma non rappresentava nulla, e poi nessun regalo era mai arrivato prima del nono compleanno.

I pensieri accompagnarono Nicolò fino al suo letto. Aveva smesso di nevicare e la luna, che era sorta da dietro la montagna, allungava sul pavimento il quadrato della finestra fino all’angolo dove aveva appoggiato quel tubo arrugginito coi bulloni al posto delle gambe e delle braccia e due dadi come occhi.

“Non hai neanche un nome, pezzo di ferraglia”, pensava il bambino. «Sei solo un piccolo pezzo di metallo. Ti chiamerò Ferrino» sussurrò il bambino appena prima di addormentarsi.

La notte trascorreva nel silenzio più assoluto della camera dei due fratelli quando un ticchettio leggero si diffuse per la casa. Era un rumore come quello della pendola giù in sala, solo più irregolare del solito tic tac e fatto da un tic-shhh-tic-shhh, come se tra un ticchettio e l’altro ci fosse qualcosa che strisciava. Al bambino sembrava di aver sognato tutto. Solo a un certo punto della notte, svegliandosi per andare a fare pipì, si rese conto che Ferrino era sparito.

Mattia dormiva al piano sotto del letto a castello e non aveva sentito nulla. Quando Nicolò iniziò a strattonarlo, gli disse sbadigliando di non disturbarlo, che ci avrebbero pensato domani mattina.

Bello o brutto, Nicolò era convinto che il burattino fosse suo e non era disposto a perderlo così. Decise di scendere da basso. Notò subito che l’uscio era chiuso ma lo sportello del gatto era solo accostato. Affacciandosi sulla stanza della stufa vide Smer sul davanzale muovere la grossa coda e alzare la testa facendo brillare gli occhi nel buio. Oltre il vetro, il vialetto era ricoperto tutto di bianco, ma si distingueva una striscia di piccole impronte che puntavano dritte al Bosco Alto.

Nicolò odiava quel bosco. Ci si era perso da piccolo e avevano dovuto venire a cercarlo gli uomini del paese, che lo trovarono solo al mattino. “Se credi che il bosco dorma, è solo perché non ci sei mai stato dentro di notte” pensava da allora ricordando i tronchi che si lamentavano tra gli scricchioli e un sacco di altre cose che strisciavano, grattavano, mugolavano, ansimavano attorno a lui. Se quello sgorbio di burattino se ne era andato nel bosco non gli interessava, pensò ritornando sotto le coperte e apprezzando che i suoi piedi sentissero di nuovo il tiepido del piumone.

Riaprì gli occhi convinto di aver dormito tutta notte, ma l’ombra della finestra era cambiata solo di poco e al posto di Ferrino c’era Smer. Nicolò lo stava fissando con la testa appoggiata al cuscino quando con un gesto della testa puntò il naso verso la finestra, in direzione del Bosco Alto. Si affacciò ma ancora non vide nulla, se non la sagoma degli alberi che sembravano un esercito di soldati schierati per proteggere l’ultima parte della valle, quella oltre la quale c’erano solo pascoli e rocce senza nessun rifugio. Gatto e bambino stettero a fissarsi per un po’, zitti.

«Va bene, andiamo a cercarlo ma solo fino alla salita» sussurrò a Smer indossando sopra il pigiama tutte le cose pesanti che gli capitò di prendere dal cassetto.

3

Gli piaceva il profumo dell’aria dopo la nevicata. Il mondo sembrava più pulito. La luna colorava d’argento tutto e non c’era quasi bisogno della lampada per seguire le tracce di Ferrino, almeno fino al punto in cui erano ingoiate dal buio del bosco dove iniziava la salita. Smer lo precedeva affondando la sua larga zampa pelosa nel manto bianco.

Arrivati ai primi alberi, non fece in tempo a dire «io lì non entro!» che con un balzo il gatto era già scomparso oltre i cartelli che indicavano la salita del monte Piangallina e la via per il passo di Ventifreddi.

«Smer, non fare stupidaggini, torna». «Smer, ti prego». «Smer non così», disse per un po’ di volte.

«Smer ho paura», aggiunse con la voce tremolante. Il bosco la assorbì nel silenzio rotto solo dal tremore dei cristalli di neve sui rami. Voltandosi verso la casa, però, non gli sembrò tanto lontana. Il lampione giallo di fronte all’uscio era un rassicurante ombrello di luce in fondo al sentiero. Da quando si era perso nel bosco, era ormai trascorso un po’ di tempo e ora era cresciuto. Poteva dunque provare ad entrare, ma solo il tempo per trovare Smer e tornare veloce a casa, prima che si accorgessero della sua assenza. Bastò qualche passo per immergersi nel nero più assoluto squarciato solo dalla sua lampada. La foresta era silenziosa come non aveva mai notato prima. Sembrava quasi un altro posto. C’era anche molta meno neve che era invece sostituita dagli aghi di pino che rendevano morbido il camminare. Continuò fino a una radura dove fu sfiorato da un fruscio, FSSSHHHHH, seguito da una sagoma scura, che si fermò appena oltre lui. Il cuore gli andò in gola congelando ogni sua mossa. La fetta di luce che usciva dalla lampada illuminava Smer immobile dove finivano le impronte di Ferrino, circondate da molte altre grosse impronte che appiattivano il bosco mostrando il marrone della terra ben aggrappata alle radici dei grossi alberi.

«Ma sei pazzo? Mi hai fatto prendere paura. Andiamocene ora, che torniamo domani». Nicolò si stava chinando per prendere in braccio Smer quando sentì un altro rumore accompagnato da uno spostamento d’aria, prima sulla testa, poi alle sue spalle.

Non ebbe il coraggio di voltarsi.

4

«Uhu, i bambini non dovrebbero venire nel bosco da soli, menchemeno la notteuuu», disse improvvisamente una voce profonda come non aveva mai sentito. Stava rimpiangendo il suo letto, l’essere uscito, la camera calda, Mattia che lo avrebbe difeso. Qualsiasi cosa gli stesse parlando, avrebbe voluto non essere lì.

Si girò lentissimo, così lento da non ricordare quanto ci avesse messo, sperando che nel frattempo quella voce non ci fosse più. Si trovò di fronte agli occhi più grossi che gli fosse mai capitato di vedere. La pupilla era un taglio nero in due sfere gialle enormi in cui si specchiavano ricurvi lui, Smer, la lampada e tutto il bosco attorno. Le piume che li circondavano erano appuntite sulla testa a formare due orecchie aguzze mentre un disegno più chiaro convergeva verso il becco che terminava in una punta affilata. Non credeva che un gufo reale potesse essere alto come lui.

«S-s-s-s-scusi, io non-non-non volevo», fu la prima cosa che gli uscì dalla bocca.

«Volere o uhu non volere. Ormai sei qui e quuuuualcuno ti vuole parlare». Fu in meno di un istante che, wussshhh, le ali del rapace si spalancarono per allungare le zampe verso Nicolò e Smer e sollevarli da terra. Il bambino non fece in tempo a spaventarsi nel sentire i grandi artigli avvolgergli la pancia e la schiena. In pochi colpi d’ala erano già sopra il bosco e sentiva le grandi superfici di piume guadagnare quota sulla montagna. Nicolò tremava, ma Smer al suo fianco si godeva il volo. I pini che avevano già perso la neve, dall’alto sembravano delle stelle. A un certo punto il bosco finì e cominciarono le praterie imbiancate dove i ruscelli cristallizzati attraversavano la montagna come se stessero gocciolando rugiada. Il paese giù in basso era ormai solo un gruppo di fiammelle tremolanti come le lucciole in estate tra i campi.

Sotto la luna, più di tutto brillava il ghiacciaio che ormai era vicinissimo. Il gufo aveva smesso di salire e ora stava planando verso i picchi che, dalla casa, gli avevano sempre ricordato un castello. Solo avvicinandosi scoprì che lo erano davvero. I muri massicci si confondevano con la roccia e le torri spuntavano sopra tutto ma non erano abbastanza alte da eguagliare il palazzo che fino a poco prima aveva creduto essere la cima della montagna. Fu in quel momento che due puntini in basso presero vita diventando due grandi orsi bruni coperti da corazze che brillavano più del ghiaccio che li circondava. Insieme spalancarono la porta così larga che, wussshhh, il gufo ci atterrò dentro con le ali aperte appoggiando Smer e Nicolò di fronte a una scalinata con una donna bellissima in cima. Ancora più della bellezza lo stupì che il suo vestito era fatto di un velo d’acqua che continuava oltre il suo corpo e scendeva a ricoprire i gradini lisci come la fontana in paese.

«Benvenuto Nicolò, vi aspettavo – disse dal suo trono la donna allungando una ciotola di latte verso Smer, le gambe e le braccia erano lunghissime e potevano raggiungere ogni angolo della grande sala senza doversi alzare – sono Stellea, regina della montagna e ho fatto in modo che arrivassi qui perché abbiamo bisogno del tuo aiuto». Solo mentre parlava, Nicolò fece caso che c’era Ferrino seduto sul gradino più alto, proprio a fianco al trono. Tenendo le sue braccine di bullone tra le gambe, sembrava preoccupato in attesa di avere una risposta a qualcosa.

5

«Abbiamo bisogno della sincerità di un bambino – continuò Stellea – Ti stai chiedendo perché proprio tu?». In effetti Nicolò se lo stava domandando ma lei parlava come se potesse leggere il suo pensiero. «Perché già una volta hai conosciuto il Bosco Alto di notte. Così sono sicura che puoi superare il compito che sto per affidarti».

Compito? Un compito era l’ultima cosa che il piccolo si aspettava lì. «Non è un compito come quelli soliti della scuola, quelli che tutti possono risolvere. È un compito speciale per un bambino speciale. Nelle caverne sul retro della montagna vive la strega bavosa. Ormai non frequenta più nessuno e crede che nessuno la voglia più perché è vecchia. Così ha rapito i giocattolai, convinta che quando le avranno insegnato a fabbricare quello che i bambini desiderano, lei potrà avere tutta la compagnia che vuole e decidere chi sarà felice e chi no. Ti chiedo di andare a parlarle. Solo la voce di un bimbo può arrivarle dritta al cuore». Nicolò non fece in tempo a domandare come avrebbe raggiunto la caverna quando sentì il dorso della mano toccato dal pelo di un grosso animale. Girando la testa si accorse della presenza di un lupo grigio. Ne sentiva il respiro caldo, lo aveva affiancato assieme ad altri due, alti quasi fino alla sua spalla. Quello che sembrava il capobranco aveva una sella in velluto nero. Gli altri invece avevano un imbrago con tre tasche su ogni fianco. Ogni tasca era piena. Guardando meglio, notò che il fagotto di peli scuri che riempiva ogni tasca aveva due occhi neri e piccoli come due capocchie di spillo e un naso a punta sollevato verso l’aria.

«Le talpe ti aiuteranno quando sarai nel cuore della montagna e Ferrino verrà con te – disse la regina allungandogli il burattino fino alla sella sul lupo – lui è la prova che i bambini non possono perdere i loro sogni senza sprofondare nella tristezza».

Si incamminarono. I lupi conoscevano bene gli anfratti della montagna, ogni volta che i massi dividevano i sentieri, il capobranco imboccava senza esitazione un passaggio. Le rocce scorrevano veloci ai fianchi di Nicolò mentre con le mani si teneva al pelo dell’animale e sentiva gli spigoli di Ferrino pungere nella cintura. Le zampe felpate delle belve scivolavano sicure e zitte sulla traccia, fino a un punto in cui gli animali rallentarono per fermarsi e annusare l’aria. Quando si accucciarono, Nicolò poté di nuovo toccare terra. Erano di fronte a una parete più alta del campanile della chiesa. Una grossa crepa a forma di saetta la spaccava in due. All’improvviso fu investito da un gracchio seguito da uno sciame di pipistrelli. Fece appena in tempo a girarsi per trovarsi circondato e sentirsi sbattere alcuni di loro contro la schiena, ma riuscì a non gridare, rassicurato che i tre lupi fossero rimasti lì senza mostrarsi troppo preoccupati. La calma dei movimenti e lo sguardo del capobranco gli dicevano che poteva fidarsi. Qualsiasi cosa sarebbe successa, loro sarebbero stati lì ad aspettarlo.

Intanto le talpe erano scese e si erano allineate di fronte alla fessura come a formare un grappolo di palle di pelo lungo tanto quanto Nicolò da sdraiato. Stava guardando quello strano tappeto quando il naso del lupo grande lo spinse delicatamente verso gli animaletti.

«Devo cavalcarle?». Il lupo mosse la testa in un sì. Nicolò raggiunse allora la formazione di animaletti e ci si sdraiò sopra, provando la sensazione di un materassino fatto di palloncini. Quando il tappeto iniziò a muoversi si rese conto di come le talpe riuscissero a scivolare dappertutto, muovendosi sotto di lui come un torrente in piena e facendolo galleggiare sul pelo.

6

Nei punti più stretti avanzavano lungo la caverna e Nicolò a pancia in giù sentiva la volta sulla schiena. In altri momenti doveva aiutarsi come nuotando, toccando le rocce che a tratti erano umidicce o rivestite di muschio. Quando sembrò che non potevano andare oltre, un ultimo passaggio lo costrinse a scendere dalle talpe e a strisciare, con due animaletti davanti a fare strada e gli altri dietro a spingerlo. Li sentiva respirare forte con i cuori che battevano veloci per la fatica. Arrivarono a un improvviso slargo illuminato da una luce soffusa che scendeva dall’alto e creava delle ombre in movimento sulle rocce. Un ombra in particolare camminava sulla parete. Ansimava e produceva il sibilo fastidioso di una bocca malforme. Le talpe si alzarono in piedi e si disposero in cerchio attorno a Nicolò, alzandosi sulle zampe posteriori e formando una corona di artigli con le loro grosse unghie abituate a scavare.

«Cosa vuoi?», domandò una voce gracchiante che sembrava venire da ovunque.

«Parlarti».

«Io non voglio parlarti», tra una parola e l’altra la voce emetteva una specie di gorgoglio, non era armoniosa né rassicurante come quella della regina.

«Ti chiedo scusa se sono entrato qui – la testa di Nicolò continuava a spostarsi per seguire l’ombra – mi manda la regina», aggiunse.

«Buona quella, capace solo di fare la signora, là sulla sua cima che tutti si divertono a salire». Nonostante l’ombra non rimanesse ferma, la voce continuava ad arrivare indistinta.

«Mi manda a dirti che tutti i bambini hanno bisogno dei loro sogni», mentre parlava si rese conto che l’ombra ingobbita della strega ad ogni passaggio sulla parete lasciava una scia gocciolante come la bava delle lumache sulle foglie.

«E perché dovrei ascoltarti?». L’ombra allungava le dita sottili nell’aria ricordandogli le punte dei rami secchi degli alberi in inverno. Sulla parete opposta Nicolò riconobbe le sagome di Ugo e Teo, chini su un tavolo a lavorare con delle catene ai piedi. Tra le parole, l’eco delle gocce scandiva il tempo e l’odore di umido.

«Perché domani compirò nove anni e senza il mio giocattolo non sarò felice come gli altri bambini».

«E perché uno dovrebbe essere felice?».

«Perché è meglio essere felici che tristi, cioè – Nicolò pesava le parole stando attento a pronunciarle verso la strega – il mondo funziona meglio se lo si è. Pensa alle facce dei bambini che non possono avere più giocattoli. Smetterebbero di essere contenti… e se noi smettiamo di ridere, chi guarderete voi grandi per capire il bene che si prova quando si ha quello che si desidera?». L’ombra allungò la mano per afferrare la testa di Nicolò.

7

Le talpe si strinsero ancora di più attorno a lui, al punto che il bambino avvertiva il calore del pelo. Stretto nel gruppo, Nicolò sentì pungere il fianco e si ricordò di Ferrino. Essendo di metallo poteva usarlo per difendersi. Chinando la testa per evitare le dita gocciolanti della strega, lo estrasse dalla cinta e lo impugnò come se fosse una spada. Il collo era l’impugnatura e le gambe appuntite verso l’ombra erano le due lame. Appena ferro e ombra entrarono in contatto, le dita della strega si ritrassero.

«Cos’è questo?», domandò con voce sofferente.

«La mia arma, disse vergognandosi di quanto fosse brutta. Nel momento in cui Nicolò alzò Ferrino, dal tubo che era il suo corpo iniziò a uscire un cono di luce che colpì la parete. Nel riquadro illuminato iniziarono a scorrere immagini. Bambini che ridevano, giocavano, correvano in campi d’estate, facevano pupazzi in inverno. In tutte le scene non c’era un adulto che non sorridesse contagiato dal buon umore. Da Ferrino continuavano a uscire storie e, mentre prendevano forma, la grotta si faceva meno buia e si propagava il colore dei prati quando fioriscono, che non sono un colore solo ma tutti i colori assieme. Più fiori spuntavano dall’umido della roccia e meno Ferrino sembrava il pupazzo arrugginito che Zanzone aveva portato. Quando la grotta fu completamente tappezzata di petali, la bava era diventata rugiada e Nicolò si ritrovò all’improvviso nel proprio letto con a fianco la mamma e Mattia.

Si fissarono in silenzio.

Per terra nella stanza c’erano i suoi vestiti con attorno una pozzanghera d’acqua mentre fuori dalla porta si intravedevano Ugo e Teo che tenevano in mano un burattino che da lontano pareva simile per proporzioni a Ferrino. I giocattolai alzarono la mano per salutarlo e Nicolò rispose con lo stesso gesto. Visto da vicino, il burattino era un uomo massiccio e tutto snodato che indossava una specie di corazza che gli faceva spuntare un terzo braccio, snodato come il corpo. All’estremità c’era una scatola magica con un lato trasparente, appena presolo in mano iniziò a uscire un fascio di luce che proiettava oggetti animati sulle pareti vicino.

Nessuno aveva mai ricevuto un giocattolo così. La gente ne parlò a lungo.

La notizia fu perfino più importante di quella dei cacciatori che raccontavano di aver avvistato le impronte di tre grossi lupi nella neve fresca all’indomani della tormenta. Gli uomini coi fucili avvisavano di stare attenti, ma tra le case furono tutti impressionati dalla voce di quel bambino, persosi nel bosco anni prima, che invece rassicurava tutti dicendo che lui, di lupi così, non avrebbe mai avuto paura. E per aiutare la gente a capire cosa intendesse, girava le case mostrando il regalo del suo nono compleanno che proiettava a tutti immagini dei lupi, ma anche di orsi, talpe, gufi e uomini che vivevano insieme e in pace tra loro. La gente si sentiva subito più tranquilla e nel godersi la bellezza delle immagini pensava al bosco come alla preziosa cornice del loro paese. Tutti erano sicuri che quello successivo sarebbe stato un buon anno.