Stonewall – new york, 50 anni fa e oggi

State partendo o avete in programma di andare a New York questa estate? Ecco una miniguida di quel c’è da fare attorno al Pride, che quest’anno è WorldPride.

Sotto tanto colore e rumore, i Pride sono innanzitutto dei momenti sociali. Il picco di questo esercizio di memoria quest’anno è a New York, dove si ricordano i 50 anni di Stonewall e si tiene il World Pride.

Un po’ di storia. Stonewall è il nome di un bar. Nella notte del 28 giugno 1969, un gruppo di giovani si oppose a una retata della polizia, senza avere coscienza dell’ondata che il loro coraggio avrebbe suscitato. Paradossalmente, da lì a un mese una navicella americana sarebbe sbarcata sulla Luna, segnando «un piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l’umanità», ma negli Stati Uniti gli uomini dovevano essere “uomini”, le donne dovevano essere “donne” e le virgolette significano che tra gente dello stesso sesso non ci si poteva scambiarsi effusioni in pubblico, ballare e tantomeno baciarsi. Un esempio su tutti: il Manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association (l’Associazione Americana di Psichiatria) classificava l’omosessualità tra le malattie mentali. Più precisamente, nel 1952 come “disturbo sociopatico della personalità” e nel 1968 più precisamente come “disturbo mentale”.

Tornando allo Stonewall Inn, nacque come un qualsiasi night club di New York. Fiutando un possibile affare, la famiglia mafiosa dei Genovese lo trasformò in un bar per omosessuali, pagando anche tangenti alla polizia per non essere “disturbata” nell’esercizio. Di fatto, tutti quelli che dovevano sapere, avevano ben chiaro che lo Stonewall era l’unico luogo pubblico dove i gay potevano ballare e scambiarsi effusioni senza rischiare l’arresto. Un paradosso che mi tocca da vicino e rende ancora più grave il tutto: l’identità della comunità in cui mi riconosco, ha dovuto passare dalla mafia per innescare il cambiamento. E se questa era New York, immaginiamo il resto dell’America (e del mondo).

Dunque, di fronte alla polizia, alcuni reagirono. Erano persone che oggi identificheremmo come membri della comunità LGBTQ. Ma era il 1969 e la sigla era ancora lontana, la lotta per i diritti era negli stadi embrionali e nessuna parata pubblica era mai stata organizzata. Già 10 anni prima ci fu una rappresaglia della polizia a Los Angeles nei confronti di un gruppo di trans, lesbiche e gay che scesero a manifestare, ma il fatto che Stonewall fosse New York, diede un altro risalto alla notizia. La comunità non chiedeva più solo di essere lasciata in pace, ma rivendicava diritti.

I moti coinvolsero la prima sera 600 uomini e donne, che triplicarono la sera successiva. Il tutto durò una settimana, in cui furono chiamate a sostegno tutte le anime che in qualche modo condividevano la voglia di affermare dei diritti.

«Stonewall fu come un piede improvvisamente pigiato sull’acceleratore – dichiara Cathy Renna, italoamericana dirigente di Target Cue – si passò dai venti all’ora ad andare a tutto gas e le notizie si propagarono velocemente in città come Philadelphia e Washington, dove la comunità era già in fermento».

«I moti di Stonewall furono un punto di svolta e un esempio per la diffusione delle manifestazioni nel mondo – precisa all’LA Times Eric Marcus del comitato Stonewall 50 – e trovo molto ispirante che proprio una delle fette di società che fino ad allora era considerata più debole e timorosa, reagì e si oppose alla polizia».

Già l’anno seguente si organizzarono i primi Pride e una parte di mondo prese coscienza dei diritti di una comunità. Il fatto che, a cinquant’anni di distanza, a New York si ospiti il World Pride è dunque l’occasione per una grande festa che, dicono gli organizzatori, arriverà a richiamare milioni di persone. Per la cronaca, la NYPD (il dipartimento di polizia della città) ha formulato le scuse per quanto successo e ha pure decorato alcune delle sue auto per onorare il Pride. Meglio tardi che mai, si dice.

Tra colore e cultura, che scegliate i giorni del Pride o quelli limitrofi, un po’ di spunti incoraggiano a saltare su un aereo e inserire la Grande Mela nelle prossime destinazioni. Al proposito, la compagnia Air Italy è la prima in Europa ad ammettere tra le generalità di bordo il terzo genere oltre a maschio e femmina, ponendosi di fatto si pone in prima linea nell’accettazione delle diversità.

Il punto di riferimento storico per capire la portata di quanto successe, è alla biblioteca centrale di New York. Il monumentale edificio della Public Library, famoso per aver ospitato i set di moltissimi film ambientati in città, ospita al piano superiore Love and Resistance: Stonewall 50. Nella galleria fotografica c’è la cronistoria di quanto accadde allo Stonewall Inn, ma anche molto di quello che c’era intorno, come libri, riviste, attività culturali, primi tentativi di costruire un’identità che fosse aperta anche all’esterno della comunità. È probabilmente la più completa rassegna mai raccolta, degna anche per trasmettere lo spaccato della città all’epoca.

Nell’area di Christopher Street si organizzano tour guidati. La cartina si scarica gratuitamente in internet, così potete scoprire le tappe e dosarvele anche per conto vostro. La zona è salvaguardata dalla stessa legislazione dei parchi nazionali americani e include tutti i luoghi che toccarono quei giorni, a partire dallo Stonewall Inn e dalla deliziosa piazzetta che lo fronteggia. Se gli interni sono (purtroppo) cambiati, l’esterno e i dintorni si riconoscono facilmente nelle foto dell’epoca. Le statue nel centro dello spazio, con il loro bianco cangiante, sono un monito a ricordare chi ci ha preceduto. Il tour di un’ora tocca il Julius Bar, rimasto identico a quando furono scattate le immagini storiche esposte alla library.

A breve, altre statue, non distanti, ricorderanno Marsha Johnson e Sylvia Rivera. Di fatto, sarà il primo monumento trans della città e, forse, al mondo. Sylvia e Marsha ebbero anche una parte nei moti. Qualcuno sostiene fin dalla prima scintilla, altri riconoscono il coinvolgimento ma solo a moti iniziati. Poco importa: non è questione del “quando” ma del “cosa” si fece. La Johnson fu anche protagonista della serie Ladies and Gentlemen di Andy Warhol, espressamente dedicata dal re della pop art ai volti trans.

Tra i protetti di Warhol, in tema LGBT c’era anche Keith Haring. Aveva solo undici anni nel 69, ma più tardi, già da protagonista della Factory, avrebbe cavalcato il mondo LGBT di New York diventandone una star. Per quanto lo riguarda, la tappa da non mancare, è quella del Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender Community Center. I new yorkers LGBT lo chiamano semplicemente The Center. Era un laboratorio della zona portuale agli albori del ‘900, ma grazie a donazioni oggi è diventato un punto di riferimento della comunità, con ambulatori, studio legale specializzato in difesa dei diritti, un bar, una fornitissima biblioteca e i disegni di Keith Haring nella stanza che era quella dei bagni. Per visitarla, chiedete alla reception e saranno ben felici di indicarvela. Tornerete in Italia avendo visto qualcosa che non è inclusa normalmente sulle guide.

New York rimane la capitale dell’arte contemporanea e non manca di confermarlo anche durante il il Pride Time, che comunque continua fino a metà luglio. Il Guggenhein celebra il momento con una mostra dedicata a Mapplethorpe, ma in giro per la città c’è parecchio fermento.

Vale lo sforzo di portarsi a Broadway e visitare la galleria Leslie Lohman. Nata da un lascito, mostra – senza veli di nessun tipo, preparatevi – una collezione privata con tutti i mostri sacri contemporanei che hanno toccato il tema.

Il Bronx Museum of Art celebra il Pride con una personale di Pacifico Silano sui silenzi subiti da chi, una decade dopo Stonewall, ha visto lo scatenarsi della piaga dell’AIDS.

Nella capitale della street art potrebbe venirvi voglia, come a chi scrive, di fare una scorpacciata di artisti da strada. Seguite il World Mural Project, per scoprire come una carrellata di writers si è misurati a riempire di colore i muri della città. Qualcuno sostiene che il vero talento contemporaneo stia qui, più che nelle gallerie patinate di Braodway.

Per chi pensa ancora che i Pride siano inutili, l’invito è andarci e scoprire il beneficio del contagio positivo. Al World Pride gli eventi sono davvero tanti, compresi quelli espressamente dedicati alle famiglie con bambini e i musical. Al Longacre Theatre c’è in scena The Prom. È la storia, ambientata negli anni ’60, di una ragazza che deve lottare per vedere riconosciuto il proprio amore per una compagna di scuola.

Dalla finestra della mia stanza al Moxy Chelsea ho tutta New York ai miei piedi. L’hotel è tra i più LGBT friendly. E’ un’esperienza andarci anche solo per salire al roof top bar. Ma è anche un’esperienza starci. l’ingresso è molto soft e non fa sentire la mancanza della natura grazie alla parete di verde verticale del negozio di fiori della coppia Putnam & Putnam. La distanza tra il marciapiede di Stonewall e il vetro segna 50 piani e 50 anni. Non c’è nemmeno un davanzale, come fosse un equilibrio precario, basta niente a cadere e tornare indietro. Tra me e il mondo solo una vetrata che si affaccia senza nascondere nulla. Non basterebbe tutta l’estate a vivere la città. Balli, feste, mostre, momenti di riflessione. Sono chiusi dall’orizzonte oltre la Statua della Libertà che è un puntino sullo sfondo. Si dice che a Manhattan l’Hudson sia come l’oceano, oltre la linea della sponda tutto sia lontano. Una copertina del New Yorker disegnata nel 1976 da Steinberg lo spiega benissimo. Ecco, partendo da questa immagine, e dalle grida di protesta del giugno 1969, penso che il più grande successo del World Pride non sarà di raggiungere i quattro milioni di gitanti festosi che tutti si aspettano, ma di sgretolare la distanza tra la Grande Mela e le Stonewall che il mondo purtroppo ancora aspetta.

Dunque grazie NYC per quello che farai. Buon World Pride a te e a tutti quelli che, come solo tu sai fare tra le grandi metropoli, accoglierai a braccia aperte.

Sei mai stato all’ hotel coyote?

Sei mai stato all’hotel Coyote?

Stefano Paolo Giussani

Sei mai stato nel West? 
Non ti sto chiedendo se hai mai visitato Arizona, Texas o Wyoming. Posti con le strade che tirano dritte come un colpo di fucile e l’asfalto bollente non conosce ristoro per centinaia di miglia, dove la sensazione di solitudine è attenuata – o accentuata, fai tu – solo dal volteggio di un condor sulla tua testa o dal tintinnio di un serpente a sonagli ai tuoi piedi. 
Quello è sì il West, ma oggi. 
Ti parlo invece del West che c’è nella testa di quando eravamo bambini, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grande un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare. 

Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne. 

Oggi al cinema il film ce l’hai di fronte. 
Lì eri dentro. 
C’eri quando Fonda e Bronson si guardavano in faccia per minuti infiniti prima dell’ultima pallottola, eri al fianco di Eastwood quella volta che diventò giustiziere dell’avamposto di San Miguel, c’eri anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari. 

Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli altri. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che sono oggi. Sono uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio nudo che vestito, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino. 

C’era una volta «quel» West, dunque. 
Oggi, trascorse cinquanta primavere, so che quello che vedevo non era neppure il West ma la provincia di Almerìa, nel sud della Spagna. Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, il Deserto de Tabernas. È lì che ci sono ancora le location dei film. Alcune le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western. 

Però, se ti procuri una brava guida, la cosa cambia. 
Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarci nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era una pubblicità ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che puntavano a dei ruderi. 

Eccolo, il set. 
Quello di Sergio Leone. 

L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco. 
Noi da soli, sul set spento dal 1966. 
Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza. 
Non ce l’ho fatta e ho ceduto alla tecnologia. 
Ho acceso Spotify e via, sulle note di Morricone. 
Con gli occhi lucidi, per essere nel mio West, quello vero. 
A un certo punto, Jorge ha acceso il portatile e mi ha travolto con altre storie. Alcune mai sentite, altre che ricordo perfettamente, tra le mie preferite. Così ho scoperto che da lì è passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con un tank nazista. Lungo la statale c’è l’edificio del Black Museum, puntata chiave della serie di Black Mirror. E a proposito di serie, è passata di qui anche l’ultima, la più costosa, la più sopravvalutata, Game of Thrones. Il regno dei Dothraki era qui, potenza della fantasia e della cascata di milioni rovesciati dalla post produzione, nel Deserto de Tabernas sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco. 

Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.

Questo post è stato pubblicato nella newsletter Futura del Corriere della Sera. L’illustrazione è di Riccardo Cusimano.

Zeffirelli era anche partigiano e ricordo’ che…

Si è spento Franco Zeffirelli. Da qualche ora si leva un coro di voci a celebrarne giustamente la figura umana e di artista. Nel suo caso credo coincidessero. Vorrei unirmi a chi lo ricorda aggiungendo qualcosa che difficilmente leggerete altrove. 

Dobbiamo ringraziarlo non solo come regista ma anche come partigiano e, se vi sta a cuore il rispetto dei diritti, anche per non aver avuto paura ad ammettere la propria omosessualità in un mondo e in un’area politica (il centro destra) dove il coming out – mi perdoni, Maestro, lei non avrebbe accettato il termine – non è affatto scontato.

Ho contattato Zeffirelli dopo aver letto una bella intervista di Antonio Gnoli per Repubblica. Affatto banale, raccontava lucidamente la storia di uno che, contro i numeri e le probabilità di farcela, riuscì a diventare qualcosa di vicino a una leggenda. Il Maestro – non gli dispiaceva farsi chiamare cosí – stava già male e chi rispose alla mail con la richiesta di intervistare a mia volta il regista declinó gentilmente.

Da anni seguo un progetto per realizzare un documentario sui partigiani e le partigiane omosessuali. Incontrare Zeffirelli mi sarebbe stato utile perchè, tra i grandi italiani, fu uno dei pochi a parlarne. Non essendoci arrivato, non mi rimane dunque che attingere a quel documento del 2013. Gnoli chiese se l’Italia provinciale della sua adolescenza gli stava stretta.

«Non lo so – rispose Zeffirelli – Ciò che a un certo punto avvertii fu il rigetto del fascismo. Improvvisamente vidi nel Duce un pagliaccio e me ne resi conto con dolore, perché fin da bambini eravamo stati nutriti con quel latte lì. Scoprire che era acido fu una grande delusione. Tutto questo agevolò la mia scelta partigiana. Vidi cose terribili, sentii l’orrore della guerra e capii quanta gioventù fu sacrificata. Ma al tempo stesso si aprì un capitolo straordinario della mia vita (…) Scoprii l’amore. Feci la mia conversione sessuale lassù, in montagna. In quegli aspri momenti con la morte che incombeva mi si rivelò l’uomo in tutta la sua straordinaria bellezza. Fu una reazione istintiva, un risveglio, un’attrazione spontanea. Non era solo innamoramento per un corpo maschile, ma sentire una diversa spiritualità».

Zeffirelli non amava affatto il termine gay. «Una parola che odio, offensiva e oscena», dichiarò in un’altra intervista.  Si definiva omosessuale e ammetteva di essere stato sempre discreto nel vivere la sua sessualità, fin dal momento del suo primo rapporto con un compagno di liceo, a cui attribuisce una data precisa perché fu il giorno della morte di Pirandello, nel 1936.

Sono passati anni da quelle dichiarazioni. Forse oggi, chissà, certe prese di posizione azzardate a cui abbiamo assistito gli avrebbero fatto cambiare opinione su un termine che vuole essere inclusivo e non osceno. Lui, che di figli ne ha adottati due, avrebbe avuto forse qualcosa da ribattere alle dichiarazioni del ministro Fontana.

Nessuno ce lo dirà mai, e non ci rimane che scrivere un grazie, comunque, per l’esempio e per aver condiviso un pezzo di storia che rende giustizia a decine di italiane e italiani che hanno combattuto per i diritti di tutti.