Archivi tag: inquinamento

La generazione Oceano per il prossimo decennio

Quando sentiamo parlare di crisi climatica e delle minacce del climate change, non sempre abbiamo a fuoco il problema nella sua totalità. La questione non è solo legata ai dati di innalzamento della temperatura globale. La definizione è molto più complicata, condizionata da una serie di variabili, di cui la più imprevedibile è quella generata dalla specie che vedete riflessa ogni mattina nello specchio. La nostra.

Aiutiamoci con una definizione. “Il clima è lo stato dell’atmosfera e dell’oceano che è in equilibrio con la forzatura solare esterna, cioè le condizioni che si ripetono frequentemente e che in qualche modo caratterizzano lo stato fondamentale del sistema atmosfera-oceano”. Le parole di Antonio Navarra, direttore del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, rendono evidenti quanto il problema sia da concentrare tanto sulla componente aerea quanto su quella acquea del nostro pianeta.

Se l’aria è spesso al centro delle nostre attenzioni, non fosse altro perché è il nostro principale alimento, non altrettanta attenzione è dedicata agli oceani. È l’economia a dirci che 3 miliardi di esseri umani dipendono la loro esistenza dal continente liquido, ma è la climatologia a spiegarci che perfino chi vive nell’ultimo rifugio di montagna dipende dal mare. E se, fino a non molto tempo fa, esso era considerato una risorsa inesauribile e inattaccabile, oggi abbiamo dati a sufficienza per definirlo seriamente minacciato.

A ricordarcelo e a sensibilizzarci, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2021 – 2030 “Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile”. Questa iniziativa punta a mobilitare la comunità scientifica, i governi, il settore privato e la società civile intorno a un programma comune di ricerca e di innovazione tecnologica che focalizza sette obiettivi da conseguire per l’oceano. Dobbiamo fare di tutto per garantirlo:

  • pulito, con le fonti di inquinamento chiaramente identificate e ridotte fino ad essere rimosse,
  • sano, con ecosistemi marini mappati, protetti, reintegrati e saggiamente gestiti,
  • sostenibile, così da garantire la fornitura di cibo e di risorse che generino occupazione nel rispetto degli equilibri,
  • predicibile, dando alla società la capacità di comprendere le condizioni oceaniche attuali e ipotizzare le future,
  • sicuro, in cui le persone abbiano coscienza dei pericoli che comunque fanno parte del sistema marino,
  • accessibile, per la divulgazione di dati, informazioni e tecnologie,
  • fonte di ispirazione e coinvolgente, perché la società possa capire e condividere il mare in relazione al benessere umano e animale.

Ci sono molti testimoni schierati, ma l’agente di cambiamento più efficace rimaniamo noi, con la parsimonia dei nostri consumi quotidiani, con la leggerezza delle confezioni che acquistiamo, con il voto che esprimiamo, con le risorse che ricicliamo e riutilizziamo, con la sottoscrizione e la condivisione del Manifesto.

E naturalmente con gli esempi che portiamo ai più piccoli. Mi ha colpito la storia di Ida e la Balena volante, graphic novel dove una bambina che vive in un bosco riceve la visita di un cetaceo. Inizialmente impaurita dalle sue dimensioni – chi di noi non si è mai trovato almeno un attimo smarrito di fronte alla vastità del mare? – accetta l’invito di cavalcarla per scoprire il mondo e la sua diversità. Una successione di quadri dipinti con raffinatezza per un racconto filosofico nato da una coppia di illustratori svizzeri che vivono insieme in mezzo alla natura, proprio come la piccola protagonista. Impugnando colori e pennello, esprimono l’idea che tutti avremmo bisogno di una balena per ampliare gli orizzonti arrivando a quello assoluto del blu. Chissà che il decennio degli oceani non sia davvero la nostra occasione per lasciare il bosco a cui siamo aggrappati e guardare in modo diverso il mondo che lasceremo in eredità a Ida.

Sei un mangiaplastica ma non lo sai (ancora per poco)

Vi siete fatti la dose di plastica anche oggi, rassegnatevi.
Non ve la siete procurata da uno spacciatore, ma l’avete acquistata in negozio o al supermercato, con un aspetto che ritenevate innocuo. L’ avete assunta in dosi considerevoli ma l’effetto lo misurerete solo tra qualche anno.
Ogni settimana ne ingeriamo cinque grammi, la quantità di una carta di credito. A denunciare la circostanza e quantificare la dose è il WWF con un comunicato eloquente.
Siamo stati ingegnosi nel creare un materiale praticamente eterno, al punto che una tanica può impiegare 3 secoli a dissolversi, servono 1000 anni a un contenitore di polistirolo di quelli per il gelato, 30 anni per un innocuo cotton fioc, ma la parte subdola della storia è che questi oggetti non si dissolveranno in un a pattumiera ma negli organismi, nostri e degli altri essere viventi. Non abbiamo ancora affatto chiaro quali saranno gli effetti per la salute.
I nostri fiumi annegano nella plastica al punto da far schifo a vedersi
e ogni giorno ci arrivano notizie di animali soffocati nei nostri mari per aver ingerito oggetti indistruttibili.

Poche ore fa è morta la femmina di dugongo che era diventata un beniamino in Thailandia dopo essere stata salvata da morte certa. Le notizie sono piene della sua foto mentre abbraccia i soccorritori. E’ morta per infezione da plastica.

Non serve volare in luoghi lontani per scoprire come siamo messi. L’Italia è corresponsabile assieme ad Egitto e Turchia di 2/3 della plastica riversata in mare. Il rapporto parla chiaro e la mappa della plastica nel Mediterraneo è agghiacciante. Ma non è ancora nulla rispetto a quel che ci aspetta. Potremmo scoprire che i prossimi esami clinici a cui ci sottoporremo
contempleranno, insieme alle solite voci, la percentuale di plastica che conteniamo.

Mi preoccupa il fatto che nessuno dei medici ce lo stia dicendo apertamente. Le iniziative delle “settimane senza plastica” si moltiplicano ma la verità è che dobbiamo puntare a una vita plastic free, pensandoci quando compriamo oggetti e alimenti in confezioni da gioielleria o quando buttiamo senza riflettere un elettrodomestico non funzionante che invece sarebbe riparabile.

Ieri ero in una pizzeria di una catena molto famosa a Milano e ho chiesto che mi riempissero il bicchiere d’acqua. Non c’è stato verso: se volevo dissetarmi serviva un bicchiere nuovo.
Serve un salto di qualità che si lasci alle spalle il “tanto vale comprarlo nuovo che costa meno” perché quel “costa meno” è solo un valore monetario istantaneo che non tiene conto dei costi reali
di tutta la filiera.

C’è un documentario drammatico sul tema e racconta come ci siano nel mondo aree letteralmente sepolte dalla plastica, con la gente che vive immersa in questo materiale. Le protagoniste sono due famiglie che hanno fatto dei polimeri la loro fonte di sostentamento. Sono quelli con la plastica intorno.
Non vorrei che fosse solo l’inizio. Non servirà andare in Cina e scoprire che i protagonisti di una ipotetica futura seconda parte del filmato saremo noi, quelli con la plastica dentro.

5 disastri per la Giornata dell’Ambiente

5 giugno, Giornata Mondiale dell’Ambiente. Potremmo elencare una serie di minacce che ogni giorno sono rivolte alla parte naturale della nostra Terra. Raggruppando 5 macrocategorie, distingueremmo:

Cambiamento climatico: ha già creato effetti evidenti sull’ambiente. I ghiacciai si sono ritirati, fiumi e laghi si scongelano prima, piante e e alberi fioriscono in anticipo. L’effetto è un lento inesorabile innalzamento delle temperature che porterà a sconvolgimenti come l’inaridimento di alcune aree mentre altre conosceranno disastrosi effetti per le precipitazioni improvvise.

Deforestazione: anche se il tasso di deforestazione è diminuito (e in Italia la tendenza è a un aumento delle aree verdi) continuiamo a giocarci 130.000 km2 l’anno di fonti di ossigeno. È come se ogni 12 mesi perdessimo una distesa d’alberi grande come l’Italia da Napoli in giù.

Inquinamento: tira una cattiva aria, in Italia sono 30.000 i decessi annui imputabili alle pessime condizioni della miscela che respiriamo. Per rendervi conto cosa significa respirare bene anche in città, se vivete a Roma, Milano o Padova, vi consiglio di entrare nella AirShip, un bosco itinerante che Austria per l’Italia ha installato per qualche giorno nelle nostre città, sulla scia del memorabile padiglione di Expo 2015.

Perdita di biodiversità: negli ultimi 40 anni abbiamo perso il 52% della biodiversità, il dato sale al 58% se consideriamo i soli vertebrati.

Crescita esplosiva della popolazione: di questo passo, mantenendo il ritmo di vita attuale, entro il 2100 ci serviranno tre pianeti per mantenerci, chi ce li da?

Leggendo la lista, che è limitata a macroproblemi a loro volta sfaccettati in moltissime ulteriori criticità, non pensiamo a 5 elementi completamente indipendenti tra loro, ma a 5 concause che da qui al 2050 potrebbero cambiare l’immagine della Terra in modo tale da non farcela riconoscere se solo avessimo il potere di materializzarci a 32 anni da oggi.

Nello stesso periodo di tempo, ma al passato, sono cambiati – solo per fare qualche esempio – il modo di muoverci (si viaggia tra Milano e Roma in meno di tre ore e si vola in tutta Europa per il weekend), di comunicare (ognuno di noi ha in tasca un processore potente come i più potenti di allora), di mangiare (in Italia è ormai normale trovare vini sudafricani e frutti sudamericani), di acquistare (compriamo con un clic beni di cui conosciamo poco o nulla oltre quello che ci viene detto attraverso lo stesso strumento da cui stiamo acquistando).

Cosa siamo disposti a fare, dunque, per aprire gli occhi e non rimanere sconvolti dalla visione del 2050? Buona Giornata dell’Ambiente a tutti noi, Terra compresa. Intanto ecco 6 minuti di Pianeta come vorrei ritrovare.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

L’aria pulita non è populismo

Un adulto medio a riposo inala circa 8 litri di aria al minuto. Facendo due conti, sono 11 mila litri giornalieri. Come dire che l’aria, piaccia o non piaccia, è il componente principale della nostra dieta. Provate a visualizzare una fila di bottiglie, in piedi una accanto all’altra per una lunghezza di 880 metri (8 campi di calcio): se ci riuscite significa che avete chiaro quanto passa per i nostri polmoni quotidianamente. Siamo praticamente dei filtri che camminano.

Quando ci mettiamo ai fornelli siamo attenti alla qualità di quello che cuciniamo. Difficilmente andremmo ad acquistare un alimento scadente. Tanto più se l’ingrediente è così importante da segnare un consumo quotidiano di 11000 litri. Purtroppo non possiamo scegliere la qualità dell’aria del luogo dove viviamo, ma almeno possiamo fare gesti concreti per migliorare l’aria. CI servono alberi. Ci servono tanti alberi. Ma il punto è che non bastano più solo quelli.

La BBC ha appena divulgato un documentario sull’inquinamento dell’aria. Si apre con un dato agghiacciante: solo in UK, sono 40.000 i morti prematuri a causa dell’aria inquinata. E’ una delle tante battaglie che ogni governo deve combattere. La domanda è la solita: fino a che punto i politici sono disposti a scelte impopolari? Il filmato è la storia di una piccola comunità che ha deciso di dichiarare guerra all’inquinamento – il titolo Fighting for Air è già una premessa – e racconta il tentativo di fermare la contaminazione in un luogo per un giorno. Nelle scene iniziali un cittadino punta il dito verso un politico e gli intima di non permettersi di decidere cosa sia buono e cosa no per lui e per la sua famiglia.

Siamo agli albori di un nuovo governo con forze che affermano di voler “davvero” cambiare. Fenomeni di passaggio o visionari positivi come lo era Steve Jobs? Solo i fatti potranno dire cosa succederà. A me basta intanto cominciare a chiedere loro (e a chi verrà dopo di loro come scrissi a chi è venuto prima) di non decidere cosa è buono e cosa no per noi che respiriamo. l’aria deve essere pulita e basta, senza compromessi.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Il labirinto di bambù

Copernicus, l’agenzia europea che si occupa dell’osservazione del territorio, ha pubblicato i dati degli incendi boschivi degli ultimi mesi. In una delle estati più incandescenti che si ricordi, in Europa vince il Portogallo, che si è fumato circa 2300 kmq (circa due volte la provincia di Napoli). L’Italia è buona seconda con 1300 kmq (quasi la provincia di Milano). La mappa dei focolai è impressionante: domina il rosso dove le fiamme sono divampate, con i dati che stanno peggiorando rispetto all’annata precedente. Su scala mondiale, la graticola non cambia, le foto del satellite mostrano il pianeta come un grande barbecue, con le prossime salamelle che rischiamo di essere noi. Secondo la Bbc, entro il 2025 ci saremo giocati oltre il 50% delle specie della foresta amazzonica. Non illudiamoci che se un bosco brucia lo si ripianti e -pluff- tutto rispunta e torna come prima. Spesso lo si brucia apposta per fare spazio ad allevamenti lager, piantagioni intensive, miniere. In ogni caso perdiamo una fonte di ossigeno, ci giochiamo l’azione stabilizzante delle radici, mandiamo in fumo l’ecosistema. Potremmo continuare, ma mi fermo qui.

Nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa. Per esempio, prestare attenzione negli acquisti cercando sull’etichetta l’origine della materia prima, che deve essere proveniente da foreste certificate. Dovremmo privilegiare nell’acquisto le specie a ricrescita veloce. Personalmente ho scoperto il bambù. Il che non fa di me un panda (è il loro alimento principale), ma uno consapevole di scegliere una sorta di pianta dei miracoli (per l’ambiente). Ha un ritmo di crescita che arriva ai 30 cm al giorno, a parità di età produce il 35% in più di ossigeno della media delle altre piante, arriva ad assorbire 12 tonnellate di CO2 per ettaro all’anno, cresce da zero a 4000 m e infine è versatile. Se ne fanno carta, arredi, costruzioni, cibo (perfino se non siete dei panda). In Giappone sono anche sicuri che le foreste di bambù abbiano un potere senza eguali sul fisico e sulla psiche. Grazie al shinrin-yoku, letteralmente bagno di foresta, camminare tra i tronchi migliora il potere immunitario e diminuisce lo stress.

Volete provare l’esperienza del perdervi in una foresta di bambù ma non potete volare fino a Kyoto? Andate verso Parma, al Bosco della Masone. Franco Maria Ricci – sì, è l’editore, il bibliofilo, il designer e il collezionista – ha creato nei pressi della sua abitazione il labirinto più grande del mondo radunando una ventina di specie di bambù. Un’occasione a cui non mancare, perfino se non siete dei panda.

Il weekend del 23 e 24 settembre sarà anche quello di Under the bamboo tree, una due giorni dedicata a questa pianta dei miracoli. Il bambù sarà il vero fil vert della manifestazione: si potrà passeggiare tra i viali del Labirinto, accompagnati dalle guide che illustreranno le peculiarità delle varie specie presenti, ci si potrà cimentare nella costruzione di oggetti di uso quotidiano o gustare speciali infusi al gusto di bambù. I più piccoli potranno divertirsi a costruire aquiloni o osservare le spregiudicate acrobazie dei trapezisti e i
mirabolanti spettacoli dei giocolieri, che utilizzeranno attrezzi rigorosamente in bambù.
I viali del dedalo verde saranno popolati anche da musicisti, che terranno piccoli concerti di flauto tra le fronde, da scovare negli angoli segreti, e dai disegnatori, impegnati a dipingere en plein air sotto la guida del maestro acquerellista Lorenzo Dotti.

Come racconta Franco Maria Ricci:

La pianta tradizionale dei labirinti è il bosso; anch’io forse
l’avrei usato, se fossi stato più giovane; ma il bosso cresce lentamente, mentre il bambù è velocissimo. L’età mi ha fatto innamorare di questa pianta meravigliosa, che è uno dei molti doni
dell’Oriente.
Se i bambù (il mio parco ne conta venti specie diverse) sono cresciuti così rigogliosi è forse perché respirano bene, a poca distanza da un fiume il cui nome profuma  di Cina: il Po. Si tratta di una pianta straordinaria, che non si ammala, non si spoglia d’inverno, a causa della sua impaziente crescita assorbe grandi quantità di anidride carbonica lasciando a noi l’ossigeno e non provoca disastri a causa di tifoni o trombe d’aria (nessuno è mai morto perché gli era caduto addosso un tronco di bambù).

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

 

 

 

Il traffico e le code ci rendono acciughe un mese ogni anno

A causa del traffico, piaccia o no, sono almeno 23 i giorni che trascorriamo in macchina ogni anno, e molti di questi giorni li trascorriamo in coda. Lo rivela uno studio promosso da Ipsos e Boston Consulting Group per l’Osservatorio Europeo della Mobilità. Perdendo 128 minuti al giorno siamo in fondo alla classifica europea, davanti solo della Grecia.

Oltre due ore rubate a una esistenza più rilassante che potrebbe essere quella del meditare, del dedicarsi alla cucina, dello stare con gli amici, leggere un libro. Mettetecene quante ne volete di voci, fatto sta che questo tempo trascorso in scatola a me da proprio l’impressione di essere un uomo stretto. Del resto, se fossimo nati per stare in macchina forse avremmo avuto le ruote e la spina dorsale a forma di sedile. Invece no.

Usiamo auto per andare a lavorare o a studiare (69 per cento contro la media europea del 61%), per andare a fare la spesa settimanale (86% contro il 76%), per star dietro ai figli (64% contro il 56%) probabilmente convinti di proteggerli quando invece gli stiamo solo dando un cattivo esempio.

A onor del vero, all’essere auto-dipendenti corrisponde contemporaneamente l’essere tra i primi a usare la bici – va al lavoro o a scuola il 6% degli intervistati – e alcune nostre città sono in testa alle classifiche europee.

Vuoi vedere che allora il problema è in quello che ci sta in mezzo, l’isola tra lo scegliere la bici e lo spostarsi in auto privata? La nota barcollante è in effetti il nodo dei mezzi pubblici. Agli intervistati mancano i collegamenti di coincidenza, i raccordi parcheggi-linee, le aree di interscambio dove finiscono le autostrade e iniziano le città.

Rimedi? Ne butto un po’ sul tavolo da cittadino, avendo ben chiaro che i pesi delle infrastrutture vanno valutati caso per caso e circostanziati sulle necessità individuali. Forse dobbiamo sviluppare una mentalità più disposta a qualche piccolo sacrificio, non c’è niente di male a camminare per 15 o 20 minuti lungo un avvicinamento, ne beneficerebbe il nostro fisico e limiteremmo l’inquinamento (“secondo i ricercatori dell’Harvard Center for Risk Analysis, il traffico delle 83 più grandi città degli Stati Uniti ha causato nel 2010 più di 2.200 morti premature e ha fatto spendere alla sanità pubblica 18 miliardi di dollari”).

Poi potremmo davvero unirci per chiedere agli amministratori azioni forti come biglietti integrati, corse speciali, mezzi attrezzati a trasportare le bici (l’unione fa la forza – e i voti – dopotutto).

Un’altra soluzione sarebbe quella di incentivare il telelavoro: siamo davvero sicuri che non potremmo lavorare almeno un giorno alla settimana da casa, o dalla biblioteca, o dal parco locale?

Sono poi un grande sostenitore del carpooling: basta posti vuoti in auto se si usano app come quella di BlaBlaCar, che in Francia sta addirittura sperimentando una specie di servizio di linea su tratte precise battute dai pendolari.

Esistono anche rimedi non risolutivi per il numero delle auto circolanti, ma almeno agevolanti per il traffico. Per esempio educare chi guida a consultare le app per risparmiare minuti di coda. Oppure si potrebbe scaglionare ingressi e uscite da uffici, fabbriche e scuole. Un po’ come si fa per le partenze intelligenti delle vacanze.

Il trucco sta nel non essere deficienti noi nel pretendere di muoverci tutti agli stessi orari e chiedere sempre più strade perché quelle vecchie non ci bastano più. Insomma, basta mari di asfalto perfetti solo per le sardine contemporanee che nessuno di noi vuole essere.

La Cina e i vecchi dei nostri paesi di montagna

Ci siamo abituati a pensare alla Cina come a uno dei mostri inquinanti del pianeta. E non siamo troppo distanti dal vero. Basta guardare la classifica degli ammorbatori di Gaia per notare come il colosso dagli occhi a mandorla abbia una politica economica il cui costo è caro. Carissimo.

Si manifesta in sostanze tossiche emesse in ambiente – suolo e atmosfera – e in decessi. Se nel primo ambito gli effetti non sono facilmente misurabili nel breve periodo, con l’ulteriore difficoltà di capire come il danno si propaghi, i cinesi conoscono purtroppo molto bene il peso in vite umane. Le particelle note come PM2,5 che possono scatenare attacchi di cuore, ictus, cancro ai polmoni e asma uccidono silenziosamente 1,6 milioni di cittadini all’anno.

Azioni di compensazione

Il governo ha bisogno di mostrare che sta facendo qualcosa. Internamente a chi pone domande sui tassi di mortalità e fuori dai confini per dare almeno l’impressione di una presa di coscienza. La notizia è che c’è in corso un programma di riforestazione su un’area paragonabile alla superficie italiana tra il Brennero e Firenze con tutto quello che c’è di mezzo e intorno.

La nota ci arriva dalla Princeton University, che però non risparmia le critiche al modo in cui l’imponente operazione è messa in atto. Quando i numeri sono nell’ordine di grandezza dei milioni – siano esseri umani, fatturato, ettari di terra, litri di acque, scegliete voi ricordando quanto è grande la Cina – i ragionamenti vanno oltre l’esperimento per diventare un caso mondiale.

Il noto ateneo americano, dopo aver analizzato per due anni i programmi scientifici alla base del progetto, ha evidenziato un errore di fondo: i cinesi stavano puntando tutto sulla concentrazione di monoculture e non sulla foresta originaria. Praticamente avevano piantato aree di soli eucalipti, soli bambù, soli cedri del Giappone e non la combinazione delle specie. L’assenza di biodiversità avrebbe potuto così, sempre secondo gli studiosi, ripercuotersi sulla fauna locale in termini quasi peggiori che non l’inquinamento. Ora il tiro pare sia stato corretto.

Non stupisce che tra gli indicatori siano stati utilizzati uccelli e api. I primi utili per capire come lo sviluppo della foresta si ripercuota sulla fauna che ci vive, le seconde per avere un quadro delle specie floreali presenti. Nelle foreste di monocolture gli uccelli tendono a essere meno numerosi e meno variati. Le api soffrono invece per fioriture limitate che possono portarle a sciamare altrove. Tutto questo non succede quando le piantumazioni sono il più vicino possibile alla foresta originaria.

La via italiana

La lezione può essere tradotta in italiano. Quando i nostri vecchi curavano i boschi, si accertavano che le specie fossero in equilibrio e – senza lauree o laboratori – sapevano che la montagna sarebbe così stata al suo posto senza rovinare a valle e continuando a dare da mangiare e scaldare.

Dissesto, risorse e legna erano gestiti a livello di villaggio e comunque funzionavano. Nel loro piccolo, ma davano da vivere. Molti dei rimedi sono oggi on line, ora anche in una pubblicazione scaricabile gratuitamente.

Ma niente è come il poter andare in uno dei villaggi tra Alpi e Appennini e ascoltare gli anziani. Fatelo, scoprirete un mondo. Puntate al bar del paese, li troverete magari a giocare a carte, soprattutto troverete un libro aperto sull’ambiente. Cose che la Princeton o il più agguerrito degli ambientalisti neanche si sognano.

Non buchiamo il referendum delle trivelle

Tra malinformazione e silenzi, domenica 17 ci sarà chiesto di dire la nostra al referendum sulle trivelle, ribattezzato No Triv.

Estremizzo le due posizioni che vi sarà capitato di sentire. La prima: se continuiamo a bucare, ci si sgonfia il pianeta sotto i piedi e sarà un gran casino con un disastro via l’altro tra maree nere, terremoti e torri in metallo all’orizzonte così brutte che neanche i gabbiani vorranno farci sopra la cacca. La seconda: se non buchiamo dovremo andare a piedi, avremo orde di disoccupati per le strade, diventeremo una specie di terzo mondo fuori dal terzo mondo.
Continua la lettura di Non buchiamo il referendum delle trivelle

La fiaba di Ferrino nella grotta della Strega Bavosa

Questa fiaba è diffondibile liberamente con qualsiasi mezzo citando la fonte:  www.stefanopaologiussani.it

 

E’ divisa in sette capitoli, come le sette sere di festa che ci separano dalla notte di San Silvestro.

 

©2013  Francesco, Matteo e Stefano Giussani – AgenziaGeografica

 

1

Ormai era una settimana che nevicava fitto fitto. Così fitto che gli alberi non ce la facevano più a reggere il peso e i rami facevano a gara per appoggiarsi a terra e non rischiare di rompersi. Ne era scesa talmente tanta che tutto era imbiancato e il soffice della neve si era mangiato perfino i rumori creando un mondo sottovoce.

Per questo, il TOC TOC sulla porta risuonò forte in tutta la casa. Nicolò chiuse di fretta il libro per vedere chi aveva sfidato la tormenta venendo a bussare alla loro porta, l’ultima prima del bosco. Si fermò sui primi gradini della scala, da dove vedeva Mattia che aveva raggiunto l’uscio prima di lui. Mattia era più grande di tre anni e ovviamente era stato più veloce. La porta aperta a metà lasciava intravedere un uomo con dietro la cascata di fiocchi che non smettevano di scendere.

Quando l’uomo domandò qualcosa e Mattia si fece da parte guardando verso la scala, anche Nicolò si girò e, non vedendo più nessuno dietro di sé, capì che il visitatore era venuto a chiedere proprio di lui.

Era Zanzone, il sindaco del paese, e teneva in mano un pacchetto. Raccontò che era successa una cosa molto strana. Dall’inizio della nevicata nessuno aveva più notizie di Ugo e Teo, i due giocattolai che abitavano nella casa a forma di torre vicino alla chiesa. Mandavano giocattoli in tutto il mondo vendendoli ai più bei negozi delle grandi città. Tutti facevano a gara per comprare i loro lavori e i due erano ben contenti di spedirli ovunque guadagnando. Se normalmente i loro giocattoli erano ben pagati, avevano però preso l’abitudine di regalarli ai bambini della loro valle. Nessun bambino viveva con loro, ma non c’era bambino in paese che non avesse ricevuto in regalo qualcosa fatto con le loro mani. Treni, bambole, carri, mulini. Non c’era oggetto che i due non sapessero riprodurre e ogni bambino e bambina delle sette frazioni sotto il monte Piangallina sapeva che, al compiere dei 9 anni, avrebbe ricevuto il suo regalo. Erano oggetti speciali, bellissimi, anche se erano fatti con gli scarti che la gente abbandonava o buttava.

«Tutto può avere una seconda vita» diceva sempre Ugo.

«Sta solo nel vederla con altri occhi» aggiungeva Teo.

Così giravano per cantine, solai e fienili a raccogliere oggetti abbandonati da trasformare. Dopo che passavano loro, quasi nulla andava buttato. La cosa straordinaria era che il giocattolo che veniva regalato diventava poi un’anticipazione del lavoro che ogni piccolo avrebbe fatto da grande. Chi aveva ricevuto in passato un forno fatto con dei vecchi scaldaletto era poi diventata la più brava pasticciera della capitale. Il bambino a cui avevano regalato un ponte costruito con le molle di un letto era ora un bravissimo ingegnere. La nave ricavata da un antico ferro da stiro era nella cabina di quello che nel frattempo era stato nominato capitano della più grande nave della flotta nazionale.

Ora erano spariti. La loro casa vuota. Il magazzino dei materiali deserto. La stanza degli arnesi senza più niente dentro. Niente, se non un burattino sbilenco fatto con tubi e bulloni e un biglietto con una scritta in una calligrafia strana che diceva “lui ci servirà perchè perfino un mostro sa crear” con a fianco un nome.

Nicolò!

2

A Nicolò mancava ancora un giorno per i suoi nove anni e il regalo che gli spettava. Perché se ne erano andati proprio ora? Zanzone non aveva risposta, ma credeva che incontrare Nicolò potesse aiutarlo in qualche modo. L’uomo attraversò il locale lasciando una scia di neve sul pavimento in legno. A vederlo col suo cappotto lungo e la corporatura massiccia, si aveva la sensazione  che si fosse messo a camminare uno dei covoni in paglia che in estate si vedevano in mezzo ai campi.

Tolti gli scarponi, davanti alla stufa accesa i piedi di Zanzone stavano scaldandosi mentre dalla cucina arrivava il profumo dei biscotti che la mamma aveva appena sfornato. Nella calza destra c’era un grosso buco che lasciava uscire il grasso dito e faceva ridere Mattia mentre Zanzone raccontava i dettagli. Mentre parlavano, il burattino in metallo era appoggiato a fianco alla stufa e la luce del fuoco faceva vibrare la sua ombra dando l’impressione che si muovesse per ascoltare quel che veniva detto.

“Quello non può essere il mio giocattolo” pensava Nicolò, perché non solo l’ometto era brutto, ma non rappresentava nulla, e poi nessun regalo era mai arrivato prima del nono compleanno.

I pensieri accompagnarono Nicolò fino al suo letto. Aveva smesso di nevicare e la luna, che era sorta da dietro la montagna, allungava sul pavimento il quadrato della finestra fino all’angolo dove aveva appoggiato quel tubo arrugginito coi bulloni al posto delle gambe e delle braccia e due dadi come occhi.

“Non hai neanche un nome, pezzo di ferraglia”, pensava il bambino. «Sei solo un piccolo pezzo di metallo. Ti chiamerò Ferrino» sussurrò il bambino appena prima di addormentarsi.

La notte trascorreva nel silenzio più assoluto della camera dei due fratelli quando un ticchettio leggero si diffuse per la casa. Era un rumore come quello della pendola giù in sala, solo più irregolare del solito tic tac e fatto da un tic-shhh-tic-shhh, come se tra un ticchettio e l’altro ci fosse qualcosa che strisciava. Al bambino sembrava di aver sognato tutto. Solo a un certo punto della notte, svegliandosi per andare a fare pipì, si rese conto che Ferrino era sparito.

Mattia dormiva al piano sotto del letto a castello e non aveva sentito nulla. Quando Nicolò iniziò a strattonarlo, gli disse sbadigliando di non disturbarlo, che ci avrebbero pensato domani mattina.

Bello o brutto, Nicolò era convinto che il burattino fosse suo e non era disposto a perderlo così. Decise di scendere da basso. Notò subito che l’uscio era chiuso ma lo sportello del gatto era solo accostato. Affacciandosi sulla stanza della stufa vide Smer sul davanzale muovere la grossa coda e alzare la testa facendo brillare gli occhi nel buio. Oltre il vetro, il vialetto era ricoperto tutto di bianco, ma si distingueva una striscia di piccole impronte che puntavano dritte al Bosco Alto.

Nicolò odiava quel bosco. Ci si era perso da piccolo e avevano dovuto venire a cercarlo gli uomini del paese, che lo trovarono solo al mattino. “Se credi che il bosco dorma, è solo perché non ci sei mai stato dentro di notte” pensava da allora ricordando i tronchi che si lamentavano tra gli scricchioli e un sacco di altre cose che strisciavano, grattavano, mugolavano, ansimavano attorno a lui. Se quello sgorbio di burattino se ne era andato nel bosco non gli interessava, pensò ritornando sotto le coperte e apprezzando che i suoi piedi sentissero di nuovo il tiepido del piumone.

Riaprì gli occhi convinto di aver dormito tutta notte, ma l’ombra della finestra era cambiata solo di poco e al posto di Ferrino c’era Smer. Nicolò lo stava fissando con la testa appoggiata al cuscino quando con un gesto della testa puntò il naso verso la finestra, in direzione del Bosco Alto. Si affacciò ma ancora non vide nulla, se non la sagoma degli alberi che sembravano un esercito di soldati schierati per proteggere l’ultima parte della valle, quella oltre la quale c’erano solo pascoli e rocce senza nessun rifugio. Gatto e bambino stettero a fissarsi per un po’, zitti.

«Va bene, andiamo a cercarlo ma solo fino alla salita» sussurrò a Smer indossando sopra il pigiama tutte le cose pesanti che gli capitò di prendere dal cassetto.

3

Gli piaceva il profumo dell’aria dopo la nevicata. Il mondo sembrava più pulito. La luna colorava d’argento tutto e non c’era quasi bisogno della lampada per seguire le tracce di Ferrino, almeno fino al punto in cui erano ingoiate dal buio del bosco dove iniziava la salita. Smer lo precedeva affondando la sua larga zampa pelosa nel manto bianco.

Arrivati ai primi alberi, non fece in tempo a dire «io lì non entro!» che con un balzo il gatto era già scomparso oltre i cartelli che indicavano la salita del monte Piangallina e la via per il passo di Ventifreddi.

«Smer, non fare stupidaggini, torna». «Smer, ti prego». «Smer non così», disse per un po’ di volte.

«Smer ho paura», aggiunse con la voce tremolante. Il bosco la assorbì nel silenzio rotto solo dal tremore dei cristalli di neve sui rami. Voltandosi verso la casa, però, non gli sembrò tanto lontana. Il lampione giallo di fronte all’uscio era un rassicurante ombrello di luce in fondo al sentiero. Da quando si era perso nel bosco, era ormai trascorso un po’ di tempo e ora era cresciuto. Poteva dunque provare ad entrare, ma solo il tempo per trovare Smer e tornare veloce a casa, prima che si accorgessero della sua assenza. Bastò qualche passo per immergersi nel nero più assoluto squarciato solo dalla sua lampada. La foresta era silenziosa come non aveva mai notato prima. Sembrava quasi un altro posto. C’era anche molta meno neve che era invece sostituita dagli aghi di pino che rendevano morbido il camminare. Continuò fino a una radura dove fu sfiorato da un fruscio, FSSSHHHHH, seguito da una sagoma scura, che si fermò appena oltre lui. Il cuore gli andò in gola congelando ogni sua mossa. La fetta di luce che usciva dalla lampada illuminava Smer immobile dove finivano le impronte di Ferrino, circondate da molte altre grosse impronte che appiattivano il bosco mostrando il marrone della terra ben aggrappata alle radici dei grossi alberi.

«Ma sei pazzo? Mi hai fatto prendere paura. Andiamocene ora, che torniamo domani». Nicolò si stava chinando per prendere in braccio Smer quando sentì un altro rumore accompagnato da uno spostamento d’aria, prima sulla testa, poi alle sue spalle.

Non ebbe il coraggio di voltarsi.

4

«Uhu, i bambini non dovrebbero venire nel bosco da soli, menchemeno la notteuuu», disse improvvisamente una voce profonda come non aveva mai sentito. Stava rimpiangendo il suo letto, l’essere uscito, la camera calda, Mattia che lo avrebbe difeso. Qualsiasi cosa gli stesse parlando, avrebbe voluto non essere lì.

Si girò lentissimo, così lento da non ricordare quanto ci avesse messo, sperando che nel frattempo quella voce non ci fosse più. Si trovò di fronte agli occhi più grossi che gli fosse mai capitato di vedere. La pupilla era un taglio nero in due sfere gialle enormi in cui si specchiavano ricurvi lui, Smer, la lampada e tutto il bosco attorno. Le piume che li circondavano erano appuntite sulla testa a formare due orecchie aguzze mentre un disegno più chiaro convergeva verso il becco che terminava in una punta affilata. Non credeva che un gufo reale potesse essere alto come lui.

«S-s-s-s-scusi, io non-non-non volevo», fu la prima cosa che gli uscì dalla bocca.

«Volere o uhu non volere. Ormai sei qui e quuuuualcuno ti vuole parlare». Fu in meno di un istante che, wussshhh, le ali del rapace si spalancarono per allungare le zampe verso Nicolò e Smer e sollevarli da terra. Il bambino non fece in tempo a spaventarsi nel sentire i grandi artigli avvolgergli la pancia e la schiena. In pochi colpi d’ala erano già sopra il bosco e sentiva le grandi superfici di piume guadagnare quota sulla montagna. Nicolò tremava, ma Smer al suo fianco si godeva il volo. I pini che avevano già perso la neve, dall’alto sembravano delle stelle. A un certo punto il bosco finì e cominciarono le praterie imbiancate dove i ruscelli cristallizzati attraversavano la montagna come se stessero gocciolando rugiada. Il paese giù in basso era ormai solo un gruppo di fiammelle tremolanti come le lucciole in estate tra i campi.

Sotto la luna, più di tutto brillava il ghiacciaio che ormai era vicinissimo. Il gufo aveva smesso di salire e ora stava planando verso i picchi che, dalla casa, gli avevano sempre ricordato un castello. Solo avvicinandosi scoprì che lo erano davvero. I muri massicci si confondevano con la roccia e le torri spuntavano sopra tutto ma non erano abbastanza alte da eguagliare il palazzo che fino a poco prima aveva creduto essere la cima della montagna. Fu in quel momento che due puntini in basso presero vita diventando due grandi orsi bruni coperti da corazze che brillavano più del ghiaccio che li circondava. Insieme spalancarono la porta così larga che, wussshhh, il gufo ci atterrò dentro con le ali aperte appoggiando Smer e Nicolò di fronte a una scalinata con una donna bellissima in cima. Ancora più della bellezza lo stupì che il suo vestito era fatto di un velo d’acqua che continuava oltre il suo corpo e scendeva a ricoprire i gradini lisci come la fontana in paese.

«Benvenuto Nicolò, vi aspettavo – disse dal suo trono la donna allungando una ciotola di latte verso Smer, le gambe e le braccia erano lunghissime e potevano raggiungere ogni angolo della grande sala senza doversi alzare – sono Stellea, regina della montagna e ho fatto in modo che arrivassi qui perché abbiamo bisogno del tuo aiuto». Solo mentre parlava, Nicolò fece caso che c’era Ferrino seduto sul gradino più alto, proprio a fianco al trono. Tenendo le sue braccine di bullone tra le gambe, sembrava preoccupato in attesa di avere una risposta a qualcosa.

5

«Abbiamo bisogno della sincerità di un bambino – continuò Stellea – Ti stai chiedendo perché proprio tu?». In effetti Nicolò se lo stava domandando ma lei parlava come se potesse leggere il suo pensiero. «Perché già una volta hai conosciuto il Bosco Alto di notte. Così sono sicura che puoi superare il compito che sto per affidarti».

Compito? Un compito era l’ultima cosa che il piccolo si aspettava lì. «Non è un compito come quelli soliti della scuola, quelli che tutti possono risolvere. È un compito speciale per un bambino speciale. Nelle caverne sul retro della montagna vive la strega bavosa. Ormai non frequenta più nessuno e crede che nessuno la voglia più perché è vecchia. Così ha rapito i giocattolai, convinta che quando le avranno insegnato a fabbricare quello che i bambini desiderano, lei potrà avere tutta la compagnia che vuole e decidere chi sarà felice e chi no. Ti chiedo di andare a parlarle. Solo la voce di un bimbo può arrivarle dritta al cuore». Nicolò non fece in tempo a domandare come avrebbe raggiunto la caverna quando sentì il dorso della mano toccato dal pelo di un grosso animale. Girando la testa si accorse della presenza di un lupo grigio. Ne sentiva il respiro caldo, lo aveva affiancato assieme ad altri due, alti quasi fino alla sua spalla. Quello che sembrava il capobranco aveva una sella in velluto nero. Gli altri invece avevano un imbrago con tre tasche su ogni fianco. Ogni tasca era piena. Guardando meglio, notò che il fagotto di peli scuri che riempiva ogni tasca aveva due occhi neri e piccoli come due capocchie di spillo e un naso a punta sollevato verso l’aria.

«Le talpe ti aiuteranno quando sarai nel cuore della montagna e Ferrino verrà con te – disse la regina allungandogli il burattino fino alla sella sul lupo – lui è la prova che i bambini non possono perdere i loro sogni senza sprofondare nella tristezza».

Si incamminarono. I lupi conoscevano bene gli anfratti della montagna, ogni volta che i massi dividevano i sentieri, il capobranco imboccava senza esitazione un passaggio. Le rocce scorrevano veloci ai fianchi di Nicolò mentre con le mani si teneva al pelo dell’animale e sentiva gli spigoli di Ferrino pungere nella cintura. Le zampe felpate delle belve scivolavano sicure e zitte sulla traccia, fino a un punto in cui gli animali rallentarono per fermarsi e annusare l’aria. Quando si accucciarono, Nicolò poté di nuovo toccare terra. Erano di fronte a una parete più alta del campanile della chiesa. Una grossa crepa a forma di saetta la spaccava in due. All’improvviso fu investito da un gracchio seguito da uno sciame di pipistrelli. Fece appena in tempo a girarsi per trovarsi circondato e sentirsi sbattere alcuni di loro contro la schiena, ma riuscì a non gridare, rassicurato che i tre lupi fossero rimasti lì senza mostrarsi troppo preoccupati. La calma dei movimenti e lo sguardo del capobranco gli dicevano che poteva fidarsi. Qualsiasi cosa sarebbe successa, loro sarebbero stati lì ad aspettarlo.

Intanto le talpe erano scese e si erano allineate di fronte alla fessura come a formare un grappolo di palle di pelo lungo tanto quanto Nicolò da sdraiato. Stava guardando quello strano tappeto quando il naso del lupo grande lo spinse delicatamente verso gli animaletti.

«Devo cavalcarle?». Il lupo mosse la testa in un sì. Nicolò raggiunse allora la formazione di animaletti e ci si sdraiò sopra, provando la sensazione di un materassino fatto di palloncini. Quando il tappeto iniziò a muoversi si rese conto di come le talpe riuscissero a scivolare dappertutto, muovendosi sotto di lui come un torrente in piena e facendolo galleggiare sul pelo.

6

Nei punti più stretti avanzavano lungo la caverna e Nicolò a pancia in giù sentiva la volta sulla schiena. In altri momenti doveva aiutarsi come nuotando, toccando le rocce che a tratti erano umidicce o rivestite di muschio. Quando sembrò che non potevano andare oltre, un ultimo passaggio lo costrinse a scendere dalle talpe e a strisciare, con due animaletti davanti a fare strada e gli altri dietro a spingerlo. Li sentiva respirare forte con i cuori che battevano veloci per la fatica. Arrivarono a un improvviso slargo illuminato da una luce soffusa che scendeva dall’alto e creava delle ombre in movimento sulle rocce. Un ombra in particolare camminava sulla parete. Ansimava e produceva il sibilo fastidioso di una bocca malforme. Le talpe si alzarono in piedi e si disposero in cerchio attorno a Nicolò, alzandosi sulle zampe posteriori e formando una corona di artigli con le loro grosse unghie abituate a scavare.

«Cosa vuoi?», domandò una voce gracchiante che sembrava venire da ovunque.

«Parlarti».

«Io non voglio parlarti», tra una parola e l’altra la voce emetteva una specie di gorgoglio, non era armoniosa né rassicurante come quella della regina.

«Ti chiedo scusa se sono entrato qui – la testa di Nicolò continuava a spostarsi per seguire l’ombra – mi manda la regina», aggiunse.

«Buona quella, capace solo di fare la signora, là sulla sua cima che tutti si divertono a salire». Nonostante l’ombra non rimanesse ferma, la voce continuava ad arrivare indistinta.

«Mi manda a dirti che tutti i bambini hanno bisogno dei loro sogni», mentre parlava si rese conto che l’ombra ingobbita della strega ad ogni passaggio sulla parete lasciava una scia gocciolante come la bava delle lumache sulle foglie.

«E perché dovrei ascoltarti?». L’ombra allungava le dita sottili nell’aria ricordandogli le punte dei rami secchi degli alberi in inverno. Sulla parete opposta Nicolò riconobbe le sagome di Ugo e Teo, chini su un tavolo a lavorare con delle catene ai piedi. Tra le parole, l’eco delle gocce scandiva il tempo e l’odore di umido.

«Perché domani compirò nove anni e senza il mio giocattolo non sarò felice come gli altri bambini».

«E perché uno dovrebbe essere felice?».

«Perché è meglio essere felici che tristi, cioè – Nicolò pesava le parole stando attento a pronunciarle verso la strega – il mondo funziona meglio se lo si è. Pensa alle facce dei bambini che non possono avere più giocattoli. Smetterebbero di essere contenti… e se noi smettiamo di ridere, chi guarderete voi grandi per capire il bene che si prova quando si ha quello che si desidera?». L’ombra allungò la mano per afferrare la testa di Nicolò.

7

Le talpe si strinsero ancora di più attorno a lui, al punto che il bambino avvertiva il calore del pelo. Stretto nel gruppo, Nicolò sentì pungere il fianco e si ricordò di Ferrino. Essendo di metallo poteva usarlo per difendersi. Chinando la testa per evitare le dita gocciolanti della strega, lo estrasse dalla cinta e lo impugnò come se fosse una spada. Il collo era l’impugnatura e le gambe appuntite verso l’ombra erano le due lame. Appena ferro e ombra entrarono in contatto, le dita della strega si ritrassero.

«Cos’è questo?», domandò con voce sofferente.

«La mia arma, disse vergognandosi di quanto fosse brutta. Nel momento in cui Nicolò alzò Ferrino, dal tubo che era il suo corpo iniziò a uscire un cono di luce che colpì la parete. Nel riquadro illuminato iniziarono a scorrere immagini. Bambini che ridevano, giocavano, correvano in campi d’estate, facevano pupazzi in inverno. In tutte le scene non c’era un adulto che non sorridesse contagiato dal buon umore. Da Ferrino continuavano a uscire storie e, mentre prendevano forma, la grotta si faceva meno buia e si propagava il colore dei prati quando fioriscono, che non sono un colore solo ma tutti i colori assieme. Più fiori spuntavano dall’umido della roccia e meno Ferrino sembrava il pupazzo arrugginito che Zanzone aveva portato. Quando la grotta fu completamente tappezzata di petali, la bava era diventata rugiada e Nicolò si ritrovò all’improvviso nel proprio letto con a fianco la mamma e Mattia.

Si fissarono in silenzio.

Per terra nella stanza c’erano i suoi vestiti con attorno una pozzanghera d’acqua mentre fuori dalla porta si intravedevano Ugo e Teo che tenevano in mano un burattino che da lontano pareva simile per proporzioni a Ferrino. I giocattolai alzarono la mano per salutarlo e Nicolò rispose con lo stesso gesto. Visto da vicino, il burattino era un uomo massiccio e tutto snodato che indossava una specie di corazza che gli faceva spuntare un terzo braccio, snodato come il corpo. All’estremità c’era una scatola magica con un lato trasparente, appena presolo in mano iniziò a uscire un fascio di luce che proiettava oggetti animati sulle pareti vicino.

Nessuno aveva mai ricevuto un giocattolo così. La gente ne parlò a lungo.

La notizia fu perfino più importante di quella dei cacciatori che raccontavano di aver avvistato le impronte di tre grossi lupi nella neve fresca all’indomani della tormenta. Gli uomini coi fucili avvisavano di stare attenti, ma tra le case furono tutti impressionati dalla voce di quel bambino, persosi nel bosco anni prima, che invece rassicurava tutti dicendo che lui, di lupi così, non avrebbe mai avuto paura. E per aiutare la gente a capire cosa intendesse, girava le case mostrando il regalo del suo nono compleanno che proiettava a tutti immagini dei lupi, ma anche di orsi, talpe, gufi e uomini che vivevano insieme e in pace tra loro. La gente si sentiva subito più tranquilla e nel godersi la bellezza delle immagini pensava al bosco come alla preziosa cornice del loro paese. Tutti erano sicuri che quello successivo sarebbe stato un buon anno.

Il nero mortale, inquinamento della Val Padana

Tranquilli, non è di razzismo o di evasione fiscale che si parla qui, ma di aria. Quando ero piccolo era normale, ascoltando la radio, incappare nella voce delle previsioni meteo che perentoria annunciava “Nebbia in Val Padana”. Ovunque la sentissi, era un po’ come una bandiera, un sentirsi a casa. Non sapevamo esattamente cosa stavamo respirando, ma in certi giorni l’aria pesava. L’illusione che a distanza di quasi cinquant’anni le cose siano migliorate c’è.

O meglio, c’era. C’era prima di leggere articoli come quelli circolati all’indomani della divulgazione dei dati sul costo in vite dello sforamento dei limiti massimi di pericolosità dell’aria. I morti sarebbero almeno 300 all’anno, di cui l’80% nella sola Milano. Edoardo Croci, direttore di ricerca allo IEFE-Università Bocconi, ne ha parlato nel convegno “I costi dell’inquinamento atmosferico: un problema dimenticato“, organizzato da Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente sulla qualità dell’aria in Europa, la Pianura Padana, nonostante la tendenza al miglioramento, resta la peggiore d’Europa in termini di qualità dell’aria, insieme all’area più industrializzata della Polonia. A Milano la responsabilità principale delle emissioni di PM 10, circa l’85%, è del traffico, e in Area C l’Agenzia Mobilità Ambiente Territorio (AMAT) ha stimato che oltre il 70% delle emissioni allo scarico è attribuibile ad auto e camion diesel euro 3 e 4 e a motorini a due tempi.

Praticamente penso ad una mappa dell’Europa e vedo nella mia Val Padana un’ombra nera. Vado con la memoria a certe giornate di cielo limpido che illumina le cascine tra i filari dei campi e nella testa mi passa che potrei vivere anche tre anni in meno per le porcherie che respiro senza rendermene conto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha reso disponibile un manuale scaricabile.

Sono convinto che bike sharing, Area C, chiusura dei centri storici al traffico privato siano ottimi strumenti. Mi manca però una voce che dica esattamente quali sono i rischi che corro quando vado in bici, quando i miei nipoti giocano nel campetto, quando le mamme spingono i passeggini nel traffico. Forse l’informazione diffusa aiuterebbe a sensibilizzare anche con piccoli comportamenti responsabili come limitarsi nell’uso dell’auto, far controllare periodicamente la caldaia, far notare al vandalo atmosferico di turno che non si sta fermi un quarto d’ora col motore acceso mentre aspetti qualcuno. Spiegare bene nelle scuole i rischi che si corrono potrebbe essere l’inizio della soluzione. L’educazione che parte dal basso è davvero contagiosa e magari riuscirebbe a ridurre quella macchia nera sulla mia regione.