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non moriremo per il coronavirus

Le notizie del virus sono più virali del virus stesso. Anche le boiate. Non sono medico e non mi sento di esprimere il minimo commento a quanto sta succedendo.

Una cosa però, quella sì, la posso scrivere. Se alcune notizie dal nostro pianeta, coetanee della paura da Coronavirus, avessero l’impatto delle sciocchezze in circolazione in questi giorni, lo considererei un successo. Invece niente.

Tanto per lucidarsi gli occhi e preoccuparsi davvero:

1. In Antartide la temperatura ha superato i 20°: il cambiamento climatico non farà paura finché non ci renderemo davvero conto che non potremo contrastare l’innalzamento dei mari e le migrazioni di massa con le confezioni di Amuchina.

2. Le foreste continuano a bruciare in tutto il mondo minando la biodiversità di ambienti già drasticamente minacciati.

3. La GPGP (Great Pacific Garbage Patch, la super isola di plastica del Pacifico) non solo ha superato la superficie della penisola iberica ma ha ormai gemelle negli altri mari.

4. In Siria una quantità agghiacciante di bambini sta morendo assiderata per il blocco dei viveri e dei soccorsi.

5. In Croazia una folla in festa esulta di fronte al rogo di un manichino. Sarebbe un rito pagano come un altro se il fantoccio non rappresentasse una coppia gay con un bambino raffigurato con la faccia del parlamentare Nenad Stazic, promotore della campagna per i diritti LGBT nel paese. 

Quante di queste notizie avete letto con la stessa attenzione di quelle dedicate al Covid 19? Ho fatto questo esame di coscienza. Una volta informatomi, con fonti avvalorate da esperti, mi sono dato dello sciocco e mi sono concentrato di più su chi cerca di sdrammatizzare la situazione.

Voglio dare un contributo in questo senso, lasciando i medici – e non gli internettologi – a fare il lavoro dei medici. Non è una mancanza di rispetto a chi è toccato da vicino, ma un invito a ragionare fino a dove ci può portare la mancanza di lucidità. La disinformazione uccide, la satira no. Ho raccolto in rete alcune delle battute social più virali. Le trovate qui sotto, dimostrano che l’ignoranza, quella vera, a volte fa davvero ridere.

questo articolo è pubblicato anche su Huffington Post.

La famiglia è una sola

Durante la Digital Media Fest, Il video di idealista La famiglia è una sola realizzato per il Pride 2019 si è aggiudicato il prestigioso premio Teletopi 2019 nella categoria Citizenship, con la seguente motivazione: “Un video che ribalta il concetto dell’unicità della famiglia in ottica inclusiva”.

Che dire, se non che il video tocca per la sua semplicità e per il contesto molto italiano? Tante finestre quante le famiglie, tanti sguardi come le sfaccettature, a prescindere da colori della pelle e abitudini. Onore ai vincitori della gara, ma onore anche ai giurati che hanno riconosciuto il valore dell’iniziativa.

Per mia – personalissima – attitudine a non sbirciare nelle case altrui, reputo un po’ da guardoni l’idea della vista attraverso le finestre. Ammetto però che, se interpretato come un messaggio per metterci la faccia, il piano di osservazione dell’intero palazzo passa efficacemente, dalla coppia lesbo ai tenerissimi vecchietti, passando per la (un po’ scontata) coppia di palestrati da cliché “milanese”.

Dal sito di Idealista, creatore della campagna:

Lo storytelling è basato sulla forza propulsiva del bacio. Una sequenza di baci travolgente in un crescendo emozionale (pàthos) sulle note di “Va pensiero”, l’inno di liberazione per eccellenza, che esprime a pieno la potenza dei sentimenti e ci ricorda che la famiglia è un legame d’amore. Lo storytelling diretto, delicato e spontaneo, culmina nel claim La famiglia è una sola, un richiamo non casuale a una frase spesso utilizzata da chi sostiene la cosiddetta famiglia tradizionale. Noi abbiamo voluto fare nostro questo slogan andando “oltre” il senso comune.

Zeffirelli era anche partigiano e ricordo’ che…

Si è spento Franco Zeffirelli. Da qualche ora si leva un coro di voci a celebrarne giustamente la figura umana e di artista. Nel suo caso credo coincidessero. Vorrei unirmi a chi lo ricorda aggiungendo qualcosa che difficilmente leggerete altrove. 

Dobbiamo ringraziarlo non solo come regista ma anche come partigiano e, se vi sta a cuore il rispetto dei diritti, anche per non aver avuto paura ad ammettere la propria omosessualità in un mondo e in un’area politica (il centro destra) dove il coming out – mi perdoni, Maestro, lei non avrebbe accettato il termine – non è affatto scontato.

Ho contattato Zeffirelli dopo aver letto una bella intervista di Antonio Gnoli per Repubblica. Affatto banale, raccontava lucidamente la storia di uno che, contro i numeri e le probabilità di farcela, riuscì a diventare qualcosa di vicino a una leggenda. Il Maestro – non gli dispiaceva farsi chiamare cosí – stava già male e chi rispose alla mail con la richiesta di intervistare a mia volta il regista declinó gentilmente.

Da anni seguo un progetto per realizzare un documentario sui partigiani e le partigiane omosessuali. Incontrare Zeffirelli mi sarebbe stato utile perchè, tra i grandi italiani, fu uno dei pochi a parlarne. Non essendoci arrivato, non mi rimane dunque che attingere a quel documento del 2013. Gnoli chiese se l’Italia provinciale della sua adolescenza gli stava stretta.

«Non lo so – rispose Zeffirelli – Ciò che a un certo punto avvertii fu il rigetto del fascismo. Improvvisamente vidi nel Duce un pagliaccio e me ne resi conto con dolore, perché fin da bambini eravamo stati nutriti con quel latte lì. Scoprire che era acido fu una grande delusione. Tutto questo agevolò la mia scelta partigiana. Vidi cose terribili, sentii l’orrore della guerra e capii quanta gioventù fu sacrificata. Ma al tempo stesso si aprì un capitolo straordinario della mia vita (…) Scoprii l’amore. Feci la mia conversione sessuale lassù, in montagna. In quegli aspri momenti con la morte che incombeva mi si rivelò l’uomo in tutta la sua straordinaria bellezza. Fu una reazione istintiva, un risveglio, un’attrazione spontanea. Non era solo innamoramento per un corpo maschile, ma sentire una diversa spiritualità».

Zeffirelli non amava affatto il termine gay. «Una parola che odio, offensiva e oscena», dichiarò in un’altra intervista.  Si definiva omosessuale e ammetteva di essere stato sempre discreto nel vivere la sua sessualità, fin dal momento del suo primo rapporto con un compagno di liceo, a cui attribuisce una data precisa perché fu il giorno della morte di Pirandello, nel 1936.

Sono passati anni da quelle dichiarazioni. Forse oggi, chissà, certe prese di posizione azzardate a cui abbiamo assistito gli avrebbero fatto cambiare opinione su un termine che vuole essere inclusivo e non osceno. Lui, che di figli ne ha adottati due, avrebbe avuto forse qualcosa da ribattere alle dichiarazioni del ministro Fontana.

Nessuno ce lo dirà mai, e non ci rimane che scrivere un grazie, comunque, per l’esempio e per aver condiviso un pezzo di storia che rende giustizia a decine di italiane e italiani che hanno combattuto per i diritti di tutti.

Se un bacio (gay) fa schifo

Che quella del bacio gay fosse una copertina destinata a far discutere era scontato. Un bacio tra due rugbisti, coppia anche nella vita, sulla copertina del settimanale della Gazzetta è già di per sé una bomba nel panorama dei magazine italiani, figurarsi poi se il giornale tratta di sport, dove l’omertà regna ancora incontrastata negli spogliatoi. Continua la lettura di Se un bacio (gay) fa schifo

Le iene: amarsi oltre la morte

Quando scrivi un documentario cerchi di limitare al massimo le contaminazioni per riportare nel più fedele dei modi la realtà. Il servizio delle Iene Amarsi oltre la morte trasmesso il 19 febbraio non è un documentario, ma mi piace pensare che lo sia. Racconta l’amore scevro da ogni costruzione intromettendosi in una storia e aggiungendo qualcosa. La Iena è partita dal messaggio di una persona che, prossima al decesso, voleva che al suo compagno fossero riconosciuti i diritti equiparabili a quelli di due persone sposate. Quei minuti di interviste incrociate e di confessionali hanno toccato il cuore di parecchi italiani. Dimostrano soprattutto che, se una legge può essere sbagliata, anche l’assenza di una legge può essere sbagliata.

Il servizio accenna anche al contratto di convivenza, un palliativo che comunque offre almeno un primo grado di tutela. A monte di tutto però c’è la storia che ti sbatte in faccia una delle molte situazioni in essere quando due individui non sono legati in matrimonio. Badate che è del tutto marginale che qui siano raccontate due persone dello stesso sesso, una delle quali purtroppo viva ora solo nei ricordi di chi l’ha amata. Sfido chiunque, di qualsiasi credo religioso o visione politica, a non trovare negli sguardi dei due protagonisti un’ottima ragione a varare una legge la cui assenza continua a rimanere una grande ingiustizia. Il capo del governo aveva fatto delle promesse precise, il suo vice ha vietato però le trascrizioni dei matrimoni contratti all’estero, poi vedo in tv servizi come quello sopra. Mi manca davvero qualche pezzo per fare dell’Italia il paese che vorrei.

Questo articolo, pubblicato anche sull’Huffington Post, è dedicato a Walter ed Ema. Walter era di Monza, come chi scrive. Un motivo in più, ne servisse uno, per sentirlo vicino.

A Genova per la Shoah con Bent

Sul Secolo XIX  e Repubblica, la prima del Bent di Sherman a Genova con il prologo de L’ultima onda del lago. La messa in scena della compagnia Cervelli in tempesta  è notevole e personalmente sono davvero  onorato per l’accostamento.

La serata ha aperto la rassegna Occhiali d’Oro, dedicata alla memoria delle persecuzioni omosessuali. Non ri ricorda mai abbastanza…

La fiaba di Ferrino nella grotta della Strega Bavosa

Questa fiaba è diffondibile liberamente con qualsiasi mezzo citando la fonte:  www.stefanopaologiussani.it

 

E’ divisa in sette capitoli, come le sette sere di festa che ci separano dalla notte di San Silvestro.

 

©2013  Francesco, Matteo e Stefano Giussani – AgenziaGeografica

 

1

Ormai era una settimana che nevicava fitto fitto. Così fitto che gli alberi non ce la facevano più a reggere il peso e i rami facevano a gara per appoggiarsi a terra e non rischiare di rompersi. Ne era scesa talmente tanta che tutto era imbiancato e il soffice della neve si era mangiato perfino i rumori creando un mondo sottovoce.

Per questo, il TOC TOC sulla porta risuonò forte in tutta la casa. Nicolò chiuse di fretta il libro per vedere chi aveva sfidato la tormenta venendo a bussare alla loro porta, l’ultima prima del bosco. Si fermò sui primi gradini della scala, da dove vedeva Mattia che aveva raggiunto l’uscio prima di lui. Mattia era più grande di tre anni e ovviamente era stato più veloce. La porta aperta a metà lasciava intravedere un uomo con dietro la cascata di fiocchi che non smettevano di scendere.

Quando l’uomo domandò qualcosa e Mattia si fece da parte guardando verso la scala, anche Nicolò si girò e, non vedendo più nessuno dietro di sé, capì che il visitatore era venuto a chiedere proprio di lui.

Era Zanzone, il sindaco del paese, e teneva in mano un pacchetto. Raccontò che era successa una cosa molto strana. Dall’inizio della nevicata nessuno aveva più notizie di Ugo e Teo, i due giocattolai che abitavano nella casa a forma di torre vicino alla chiesa. Mandavano giocattoli in tutto il mondo vendendoli ai più bei negozi delle grandi città. Tutti facevano a gara per comprare i loro lavori e i due erano ben contenti di spedirli ovunque guadagnando. Se normalmente i loro giocattoli erano ben pagati, avevano però preso l’abitudine di regalarli ai bambini della loro valle. Nessun bambino viveva con loro, ma non c’era bambino in paese che non avesse ricevuto in regalo qualcosa fatto con le loro mani. Treni, bambole, carri, mulini. Non c’era oggetto che i due non sapessero riprodurre e ogni bambino e bambina delle sette frazioni sotto il monte Piangallina sapeva che, al compiere dei 9 anni, avrebbe ricevuto il suo regalo. Erano oggetti speciali, bellissimi, anche se erano fatti con gli scarti che la gente abbandonava o buttava.

«Tutto può avere una seconda vita» diceva sempre Ugo.

«Sta solo nel vederla con altri occhi» aggiungeva Teo.

Così giravano per cantine, solai e fienili a raccogliere oggetti abbandonati da trasformare. Dopo che passavano loro, quasi nulla andava buttato. La cosa straordinaria era che il giocattolo che veniva regalato diventava poi un’anticipazione del lavoro che ogni piccolo avrebbe fatto da grande. Chi aveva ricevuto in passato un forno fatto con dei vecchi scaldaletto era poi diventata la più brava pasticciera della capitale. Il bambino a cui avevano regalato un ponte costruito con le molle di un letto era ora un bravissimo ingegnere. La nave ricavata da un antico ferro da stiro era nella cabina di quello che nel frattempo era stato nominato capitano della più grande nave della flotta nazionale.

Ora erano spariti. La loro casa vuota. Il magazzino dei materiali deserto. La stanza degli arnesi senza più niente dentro. Niente, se non un burattino sbilenco fatto con tubi e bulloni e un biglietto con una scritta in una calligrafia strana che diceva “lui ci servirà perchè perfino un mostro sa crear” con a fianco un nome.

Nicolò!

2

A Nicolò mancava ancora un giorno per i suoi nove anni e il regalo che gli spettava. Perché se ne erano andati proprio ora? Zanzone non aveva risposta, ma credeva che incontrare Nicolò potesse aiutarlo in qualche modo. L’uomo attraversò il locale lasciando una scia di neve sul pavimento in legno. A vederlo col suo cappotto lungo e la corporatura massiccia, si aveva la sensazione  che si fosse messo a camminare uno dei covoni in paglia che in estate si vedevano in mezzo ai campi.

Tolti gli scarponi, davanti alla stufa accesa i piedi di Zanzone stavano scaldandosi mentre dalla cucina arrivava il profumo dei biscotti che la mamma aveva appena sfornato. Nella calza destra c’era un grosso buco che lasciava uscire il grasso dito e faceva ridere Mattia mentre Zanzone raccontava i dettagli. Mentre parlavano, il burattino in metallo era appoggiato a fianco alla stufa e la luce del fuoco faceva vibrare la sua ombra dando l’impressione che si muovesse per ascoltare quel che veniva detto.

“Quello non può essere il mio giocattolo” pensava Nicolò, perché non solo l’ometto era brutto, ma non rappresentava nulla, e poi nessun regalo era mai arrivato prima del nono compleanno.

I pensieri accompagnarono Nicolò fino al suo letto. Aveva smesso di nevicare e la luna, che era sorta da dietro la montagna, allungava sul pavimento il quadrato della finestra fino all’angolo dove aveva appoggiato quel tubo arrugginito coi bulloni al posto delle gambe e delle braccia e due dadi come occhi.

“Non hai neanche un nome, pezzo di ferraglia”, pensava il bambino. «Sei solo un piccolo pezzo di metallo. Ti chiamerò Ferrino» sussurrò il bambino appena prima di addormentarsi.

La notte trascorreva nel silenzio più assoluto della camera dei due fratelli quando un ticchettio leggero si diffuse per la casa. Era un rumore come quello della pendola giù in sala, solo più irregolare del solito tic tac e fatto da un tic-shhh-tic-shhh, come se tra un ticchettio e l’altro ci fosse qualcosa che strisciava. Al bambino sembrava di aver sognato tutto. Solo a un certo punto della notte, svegliandosi per andare a fare pipì, si rese conto che Ferrino era sparito.

Mattia dormiva al piano sotto del letto a castello e non aveva sentito nulla. Quando Nicolò iniziò a strattonarlo, gli disse sbadigliando di non disturbarlo, che ci avrebbero pensato domani mattina.

Bello o brutto, Nicolò era convinto che il burattino fosse suo e non era disposto a perderlo così. Decise di scendere da basso. Notò subito che l’uscio era chiuso ma lo sportello del gatto era solo accostato. Affacciandosi sulla stanza della stufa vide Smer sul davanzale muovere la grossa coda e alzare la testa facendo brillare gli occhi nel buio. Oltre il vetro, il vialetto era ricoperto tutto di bianco, ma si distingueva una striscia di piccole impronte che puntavano dritte al Bosco Alto.

Nicolò odiava quel bosco. Ci si era perso da piccolo e avevano dovuto venire a cercarlo gli uomini del paese, che lo trovarono solo al mattino. “Se credi che il bosco dorma, è solo perché non ci sei mai stato dentro di notte” pensava da allora ricordando i tronchi che si lamentavano tra gli scricchioli e un sacco di altre cose che strisciavano, grattavano, mugolavano, ansimavano attorno a lui. Se quello sgorbio di burattino se ne era andato nel bosco non gli interessava, pensò ritornando sotto le coperte e apprezzando che i suoi piedi sentissero di nuovo il tiepido del piumone.

Riaprì gli occhi convinto di aver dormito tutta notte, ma l’ombra della finestra era cambiata solo di poco e al posto di Ferrino c’era Smer. Nicolò lo stava fissando con la testa appoggiata al cuscino quando con un gesto della testa puntò il naso verso la finestra, in direzione del Bosco Alto. Si affacciò ma ancora non vide nulla, se non la sagoma degli alberi che sembravano un esercito di soldati schierati per proteggere l’ultima parte della valle, quella oltre la quale c’erano solo pascoli e rocce senza nessun rifugio. Gatto e bambino stettero a fissarsi per un po’, zitti.

«Va bene, andiamo a cercarlo ma solo fino alla salita» sussurrò a Smer indossando sopra il pigiama tutte le cose pesanti che gli capitò di prendere dal cassetto.

3

Gli piaceva il profumo dell’aria dopo la nevicata. Il mondo sembrava più pulito. La luna colorava d’argento tutto e non c’era quasi bisogno della lampada per seguire le tracce di Ferrino, almeno fino al punto in cui erano ingoiate dal buio del bosco dove iniziava la salita. Smer lo precedeva affondando la sua larga zampa pelosa nel manto bianco.

Arrivati ai primi alberi, non fece in tempo a dire «io lì non entro!» che con un balzo il gatto era già scomparso oltre i cartelli che indicavano la salita del monte Piangallina e la via per il passo di Ventifreddi.

«Smer, non fare stupidaggini, torna». «Smer, ti prego». «Smer non così», disse per un po’ di volte.

«Smer ho paura», aggiunse con la voce tremolante. Il bosco la assorbì nel silenzio rotto solo dal tremore dei cristalli di neve sui rami. Voltandosi verso la casa, però, non gli sembrò tanto lontana. Il lampione giallo di fronte all’uscio era un rassicurante ombrello di luce in fondo al sentiero. Da quando si era perso nel bosco, era ormai trascorso un po’ di tempo e ora era cresciuto. Poteva dunque provare ad entrare, ma solo il tempo per trovare Smer e tornare veloce a casa, prima che si accorgessero della sua assenza. Bastò qualche passo per immergersi nel nero più assoluto squarciato solo dalla sua lampada. La foresta era silenziosa come non aveva mai notato prima. Sembrava quasi un altro posto. C’era anche molta meno neve che era invece sostituita dagli aghi di pino che rendevano morbido il camminare. Continuò fino a una radura dove fu sfiorato da un fruscio, FSSSHHHHH, seguito da una sagoma scura, che si fermò appena oltre lui. Il cuore gli andò in gola congelando ogni sua mossa. La fetta di luce che usciva dalla lampada illuminava Smer immobile dove finivano le impronte di Ferrino, circondate da molte altre grosse impronte che appiattivano il bosco mostrando il marrone della terra ben aggrappata alle radici dei grossi alberi.

«Ma sei pazzo? Mi hai fatto prendere paura. Andiamocene ora, che torniamo domani». Nicolò si stava chinando per prendere in braccio Smer quando sentì un altro rumore accompagnato da uno spostamento d’aria, prima sulla testa, poi alle sue spalle.

Non ebbe il coraggio di voltarsi.

4

«Uhu, i bambini non dovrebbero venire nel bosco da soli, menchemeno la notteuuu», disse improvvisamente una voce profonda come non aveva mai sentito. Stava rimpiangendo il suo letto, l’essere uscito, la camera calda, Mattia che lo avrebbe difeso. Qualsiasi cosa gli stesse parlando, avrebbe voluto non essere lì.

Si girò lentissimo, così lento da non ricordare quanto ci avesse messo, sperando che nel frattempo quella voce non ci fosse più. Si trovò di fronte agli occhi più grossi che gli fosse mai capitato di vedere. La pupilla era un taglio nero in due sfere gialle enormi in cui si specchiavano ricurvi lui, Smer, la lampada e tutto il bosco attorno. Le piume che li circondavano erano appuntite sulla testa a formare due orecchie aguzze mentre un disegno più chiaro convergeva verso il becco che terminava in una punta affilata. Non credeva che un gufo reale potesse essere alto come lui.

«S-s-s-s-scusi, io non-non-non volevo», fu la prima cosa che gli uscì dalla bocca.

«Volere o uhu non volere. Ormai sei qui e quuuuualcuno ti vuole parlare». Fu in meno di un istante che, wussshhh, le ali del rapace si spalancarono per allungare le zampe verso Nicolò e Smer e sollevarli da terra. Il bambino non fece in tempo a spaventarsi nel sentire i grandi artigli avvolgergli la pancia e la schiena. In pochi colpi d’ala erano già sopra il bosco e sentiva le grandi superfici di piume guadagnare quota sulla montagna. Nicolò tremava, ma Smer al suo fianco si godeva il volo. I pini che avevano già perso la neve, dall’alto sembravano delle stelle. A un certo punto il bosco finì e cominciarono le praterie imbiancate dove i ruscelli cristallizzati attraversavano la montagna come se stessero gocciolando rugiada. Il paese giù in basso era ormai solo un gruppo di fiammelle tremolanti come le lucciole in estate tra i campi.

Sotto la luna, più di tutto brillava il ghiacciaio che ormai era vicinissimo. Il gufo aveva smesso di salire e ora stava planando verso i picchi che, dalla casa, gli avevano sempre ricordato un castello. Solo avvicinandosi scoprì che lo erano davvero. I muri massicci si confondevano con la roccia e le torri spuntavano sopra tutto ma non erano abbastanza alte da eguagliare il palazzo che fino a poco prima aveva creduto essere la cima della montagna. Fu in quel momento che due puntini in basso presero vita diventando due grandi orsi bruni coperti da corazze che brillavano più del ghiaccio che li circondava. Insieme spalancarono la porta così larga che, wussshhh, il gufo ci atterrò dentro con le ali aperte appoggiando Smer e Nicolò di fronte a una scalinata con una donna bellissima in cima. Ancora più della bellezza lo stupì che il suo vestito era fatto di un velo d’acqua che continuava oltre il suo corpo e scendeva a ricoprire i gradini lisci come la fontana in paese.

«Benvenuto Nicolò, vi aspettavo – disse dal suo trono la donna allungando una ciotola di latte verso Smer, le gambe e le braccia erano lunghissime e potevano raggiungere ogni angolo della grande sala senza doversi alzare – sono Stellea, regina della montagna e ho fatto in modo che arrivassi qui perché abbiamo bisogno del tuo aiuto». Solo mentre parlava, Nicolò fece caso che c’era Ferrino seduto sul gradino più alto, proprio a fianco al trono. Tenendo le sue braccine di bullone tra le gambe, sembrava preoccupato in attesa di avere una risposta a qualcosa.

5

«Abbiamo bisogno della sincerità di un bambino – continuò Stellea – Ti stai chiedendo perché proprio tu?». In effetti Nicolò se lo stava domandando ma lei parlava come se potesse leggere il suo pensiero. «Perché già una volta hai conosciuto il Bosco Alto di notte. Così sono sicura che puoi superare il compito che sto per affidarti».

Compito? Un compito era l’ultima cosa che il piccolo si aspettava lì. «Non è un compito come quelli soliti della scuola, quelli che tutti possono risolvere. È un compito speciale per un bambino speciale. Nelle caverne sul retro della montagna vive la strega bavosa. Ormai non frequenta più nessuno e crede che nessuno la voglia più perché è vecchia. Così ha rapito i giocattolai, convinta che quando le avranno insegnato a fabbricare quello che i bambini desiderano, lei potrà avere tutta la compagnia che vuole e decidere chi sarà felice e chi no. Ti chiedo di andare a parlarle. Solo la voce di un bimbo può arrivarle dritta al cuore». Nicolò non fece in tempo a domandare come avrebbe raggiunto la caverna quando sentì il dorso della mano toccato dal pelo di un grosso animale. Girando la testa si accorse della presenza di un lupo grigio. Ne sentiva il respiro caldo, lo aveva affiancato assieme ad altri due, alti quasi fino alla sua spalla. Quello che sembrava il capobranco aveva una sella in velluto nero. Gli altri invece avevano un imbrago con tre tasche su ogni fianco. Ogni tasca era piena. Guardando meglio, notò che il fagotto di peli scuri che riempiva ogni tasca aveva due occhi neri e piccoli come due capocchie di spillo e un naso a punta sollevato verso l’aria.

«Le talpe ti aiuteranno quando sarai nel cuore della montagna e Ferrino verrà con te – disse la regina allungandogli il burattino fino alla sella sul lupo – lui è la prova che i bambini non possono perdere i loro sogni senza sprofondare nella tristezza».

Si incamminarono. I lupi conoscevano bene gli anfratti della montagna, ogni volta che i massi dividevano i sentieri, il capobranco imboccava senza esitazione un passaggio. Le rocce scorrevano veloci ai fianchi di Nicolò mentre con le mani si teneva al pelo dell’animale e sentiva gli spigoli di Ferrino pungere nella cintura. Le zampe felpate delle belve scivolavano sicure e zitte sulla traccia, fino a un punto in cui gli animali rallentarono per fermarsi e annusare l’aria. Quando si accucciarono, Nicolò poté di nuovo toccare terra. Erano di fronte a una parete più alta del campanile della chiesa. Una grossa crepa a forma di saetta la spaccava in due. All’improvviso fu investito da un gracchio seguito da uno sciame di pipistrelli. Fece appena in tempo a girarsi per trovarsi circondato e sentirsi sbattere alcuni di loro contro la schiena, ma riuscì a non gridare, rassicurato che i tre lupi fossero rimasti lì senza mostrarsi troppo preoccupati. La calma dei movimenti e lo sguardo del capobranco gli dicevano che poteva fidarsi. Qualsiasi cosa sarebbe successa, loro sarebbero stati lì ad aspettarlo.

Intanto le talpe erano scese e si erano allineate di fronte alla fessura come a formare un grappolo di palle di pelo lungo tanto quanto Nicolò da sdraiato. Stava guardando quello strano tappeto quando il naso del lupo grande lo spinse delicatamente verso gli animaletti.

«Devo cavalcarle?». Il lupo mosse la testa in un sì. Nicolò raggiunse allora la formazione di animaletti e ci si sdraiò sopra, provando la sensazione di un materassino fatto di palloncini. Quando il tappeto iniziò a muoversi si rese conto di come le talpe riuscissero a scivolare dappertutto, muovendosi sotto di lui come un torrente in piena e facendolo galleggiare sul pelo.

6

Nei punti più stretti avanzavano lungo la caverna e Nicolò a pancia in giù sentiva la volta sulla schiena. In altri momenti doveva aiutarsi come nuotando, toccando le rocce che a tratti erano umidicce o rivestite di muschio. Quando sembrò che non potevano andare oltre, un ultimo passaggio lo costrinse a scendere dalle talpe e a strisciare, con due animaletti davanti a fare strada e gli altri dietro a spingerlo. Li sentiva respirare forte con i cuori che battevano veloci per la fatica. Arrivarono a un improvviso slargo illuminato da una luce soffusa che scendeva dall’alto e creava delle ombre in movimento sulle rocce. Un ombra in particolare camminava sulla parete. Ansimava e produceva il sibilo fastidioso di una bocca malforme. Le talpe si alzarono in piedi e si disposero in cerchio attorno a Nicolò, alzandosi sulle zampe posteriori e formando una corona di artigli con le loro grosse unghie abituate a scavare.

«Cosa vuoi?», domandò una voce gracchiante che sembrava venire da ovunque.

«Parlarti».

«Io non voglio parlarti», tra una parola e l’altra la voce emetteva una specie di gorgoglio, non era armoniosa né rassicurante come quella della regina.

«Ti chiedo scusa se sono entrato qui – la testa di Nicolò continuava a spostarsi per seguire l’ombra – mi manda la regina», aggiunse.

«Buona quella, capace solo di fare la signora, là sulla sua cima che tutti si divertono a salire». Nonostante l’ombra non rimanesse ferma, la voce continuava ad arrivare indistinta.

«Mi manda a dirti che tutti i bambini hanno bisogno dei loro sogni», mentre parlava si rese conto che l’ombra ingobbita della strega ad ogni passaggio sulla parete lasciava una scia gocciolante come la bava delle lumache sulle foglie.

«E perché dovrei ascoltarti?». L’ombra allungava le dita sottili nell’aria ricordandogli le punte dei rami secchi degli alberi in inverno. Sulla parete opposta Nicolò riconobbe le sagome di Ugo e Teo, chini su un tavolo a lavorare con delle catene ai piedi. Tra le parole, l’eco delle gocce scandiva il tempo e l’odore di umido.

«Perché domani compirò nove anni e senza il mio giocattolo non sarò felice come gli altri bambini».

«E perché uno dovrebbe essere felice?».

«Perché è meglio essere felici che tristi, cioè – Nicolò pesava le parole stando attento a pronunciarle verso la strega – il mondo funziona meglio se lo si è. Pensa alle facce dei bambini che non possono avere più giocattoli. Smetterebbero di essere contenti… e se noi smettiamo di ridere, chi guarderete voi grandi per capire il bene che si prova quando si ha quello che si desidera?». L’ombra allungò la mano per afferrare la testa di Nicolò.

7

Le talpe si strinsero ancora di più attorno a lui, al punto che il bambino avvertiva il calore del pelo. Stretto nel gruppo, Nicolò sentì pungere il fianco e si ricordò di Ferrino. Essendo di metallo poteva usarlo per difendersi. Chinando la testa per evitare le dita gocciolanti della strega, lo estrasse dalla cinta e lo impugnò come se fosse una spada. Il collo era l’impugnatura e le gambe appuntite verso l’ombra erano le due lame. Appena ferro e ombra entrarono in contatto, le dita della strega si ritrassero.

«Cos’è questo?», domandò con voce sofferente.

«La mia arma, disse vergognandosi di quanto fosse brutta. Nel momento in cui Nicolò alzò Ferrino, dal tubo che era il suo corpo iniziò a uscire un cono di luce che colpì la parete. Nel riquadro illuminato iniziarono a scorrere immagini. Bambini che ridevano, giocavano, correvano in campi d’estate, facevano pupazzi in inverno. In tutte le scene non c’era un adulto che non sorridesse contagiato dal buon umore. Da Ferrino continuavano a uscire storie e, mentre prendevano forma, la grotta si faceva meno buia e si propagava il colore dei prati quando fioriscono, che non sono un colore solo ma tutti i colori assieme. Più fiori spuntavano dall’umido della roccia e meno Ferrino sembrava il pupazzo arrugginito che Zanzone aveva portato. Quando la grotta fu completamente tappezzata di petali, la bava era diventata rugiada e Nicolò si ritrovò all’improvviso nel proprio letto con a fianco la mamma e Mattia.

Si fissarono in silenzio.

Per terra nella stanza c’erano i suoi vestiti con attorno una pozzanghera d’acqua mentre fuori dalla porta si intravedevano Ugo e Teo che tenevano in mano un burattino che da lontano pareva simile per proporzioni a Ferrino. I giocattolai alzarono la mano per salutarlo e Nicolò rispose con lo stesso gesto. Visto da vicino, il burattino era un uomo massiccio e tutto snodato che indossava una specie di corazza che gli faceva spuntare un terzo braccio, snodato come il corpo. All’estremità c’era una scatola magica con un lato trasparente, appena presolo in mano iniziò a uscire un fascio di luce che proiettava oggetti animati sulle pareti vicino.

Nessuno aveva mai ricevuto un giocattolo così. La gente ne parlò a lungo.

La notizia fu perfino più importante di quella dei cacciatori che raccontavano di aver avvistato le impronte di tre grossi lupi nella neve fresca all’indomani della tormenta. Gli uomini coi fucili avvisavano di stare attenti, ma tra le case furono tutti impressionati dalla voce di quel bambino, persosi nel bosco anni prima, che invece rassicurava tutti dicendo che lui, di lupi così, non avrebbe mai avuto paura. E per aiutare la gente a capire cosa intendesse, girava le case mostrando il regalo del suo nono compleanno che proiettava a tutti immagini dei lupi, ma anche di orsi, talpe, gufi e uomini che vivevano insieme e in pace tra loro. La gente si sentiva subito più tranquilla e nel godersi la bellezza delle immagini pensava al bosco come alla preziosa cornice del loro paese. Tutti erano sicuri che quello successivo sarebbe stato un buon anno.

L’ultima Onda del Lago – Booktrailer

Milano – Durante la seconda guerra mondiale, una ragazza ebrea cerca di salvare il fratello sordocieco dai bombardamenti e dal campo di concentramento. L’unico amico in città, rimasto solo dopo l’arresto del compagno, si offre di accompagnarli nella fuga verso la Svizzera.
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Le sentinelle che sono un danno al Pil

Le “sentinelle in piedi” (che poi, avete mai visto una sentinella seduta?) sono un danno, e non parlo per la comunità gay e i diritti negati. Il sistema ‘Italia dei diritti calpestati’ sta facendo il giro del mondo. La tournée  questa volta tocca a un atto della Procura di Perugia.

Ma andiamo con ordine. Il fatto: le “sentinelle in piedi” attuano la loro protesta in una piazza del capoluogo umbro e una coppia, oggi sposata a Londra, non si fa problemi a baciarsi tra i manifestanti. Il problema è che la coppia è composta da due uomini e la Procura apre un’inchiesta che approda anche in parlamento. Dunque, ben prima che il nostro illuminato Angelino Alfano emanasse il suo editto omofobico, un ufficio della Repubblica  dedica tempo e risorse a una indagine in cui si ravvede il nulla, probabilmente impegnando agenti preziosi su una stupidata mentre rimangono irrisolti casi ben più importanti per la giustizia italiana. Ammettiamolo, invertendo le parti, se qualcuno avesse recitato preghiere in un gay pride, probabilmente sarebbe passato inosservato. E vi prego di notare che anche noi gay preghiamo come, forse, anche le sentinelle si baciano tra individui dello stesso sesso. Ma veniamo al punto. La notizia ora sta girando il mondo, facendo passare il mio paese per un covo di retrogradi. Probabilmente ora ci vedono così in Canada, nel Regno Unito, in Sud America, in Svezia, in Spagna, e un po’ in tutta la comunità internazionale

Non mi va bene. Non dovrebbe andare bene neppure a chi ha a cuore la faccia italiana. Buttiamola sull’economico: non dovrebbe andar bene neppure agli operatori del turismo che assistono alla lesione dell’immagine del Bel Paese di fronte a una delle comunità di viaggiatori più ricche, proprio in momenti come questo dove ogni turista è manna sul nostro Pil. Se qualcuno cominciasse a denunciare sentinelle e Alfani di turno per danni, penserei che sarebbe solo un atto dovuto.

L’uomo polifonico in Piazza dei Miracoli

Pisa, Piazza dei Miracoli. Torre, cattedrale, battistero e cimitero. Tutte le architetture concorrono ad essere una allegoria della vita: il battistero è la nascita, la cattedrale la vita con la vicina torre per invitare ad innalzarla, il camposanto la meta finale, lungo tutta la piazza come a ricordare che da un momento all’altro, potrebbe succedere che si deva lasciare tutto quel che è terreno.


Il panorama incanta, la storia affascina, i turisti incuriosiscono, ma l’invito è a leggere con altri occhi. C’è qualcosa di poco visibile. Tipo: il disegno del battistero contiene una grande stella che produce un’acustica perfetta, permettendo a un uomo solo di creare un effetto di coro polifonico.

Prova di acustica: un uomo “polifonico”

Poi c’è una delle porte della cattedrale, così irriverente per il luogo da ridicolizzare un intero gay pride. Il contatto delle dita dei visitatori pare aver ricalcato qualcosa che, forse, lo scultore aveva solo accennato.


Non di meno, nel camposanto, lo straordinario ciclo di affeschi di Buonamico Buffalmacco, propone un diavolo che proprio non riesce proprio ad essere spaventoso, rivelando anzi una curiosa somiglianza con Topolino. Però Walt Disney sarebbe nato solo sette secoli dopo.

Poi ci sono gli altri spunti. Sono quelli variano di ora in ora ed è un divertimento cercarli sapendo che nessuna guida sarà mai in grado di catalogarli.