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Just Look Up, Please

Just look up, perché tutto è già successo

Questo è un post per chi ha già visto Don’t look up, la produzione Netflix che continua a far parlare di sé.

Non è una recensione, perché ce ne sono già di ottime in queste pagine. È piuttosto un breve riassunto del perché andrebbe considerato con un’angolazione documentaristica anche se si tratta di un prodotto di fiction. Può sembrare un ossimoro, ma se fotografiamo il film per singoli argomenti non lo è. Tutto è già successo. Il poster stesso dichiara che il film è basato su fatti realmente possibili, ma è più corretto affermare che tutto quel che c’è nel film si è già verificato (e dovrebbe farci riflettere).

È un esempio di vena comica su un evento catastrofico, come ci erano già passati Stranamore e un’indimenticabile pagina di Stefano Benni. Nel piccolo delle nostre esistenze, non siamo distanti dalla vis comica di Fantozzi, una vita reale che viene estremizzata al ridicolo anche se Fantozzi è tutti noi.

Quando si entra al museo di Storia Naturale a Londra, all’inizio del percorso di visita, una lunga linea del tempo ci ricorda che gli ELE (Extinction Level Event – eventi di portata tale da provocare l’estinzione di massa) sono fenomeni naturali e il nostro pianeta ne ha già vissuti almeno cinque. Dunque il film parte da un presupposto reale e possibile per quanto raro.

Proprio per questa rarità, tutta la macchina narrativa è un pretesto. Nessun politico denuncerà l’arrivo di un killer di pianeti contro il quale potremo ben poco e che quando arriverà sarà tenuto nascosto il più possibile per non creare panico. Lo sapremo da qualche scienziato e attraverso la rete. Il film, come spiega Leonardo di Caprio nel suo commento, è un monito a non ignorare i messaggi della scienza. Sul clima – e non entro nel merito della cronaca covid – la scienza è continuamente messa in discussione contro l’evidenza dei dati.

Nel film il suo personaggio lo ribadisce più volte: ragioniamo sulle evidenze inconfutabili.

Il paradosso continua con certe abitudini reali della comunità planetaria. In ordine sparso qualche esempio.

Il proprietario della Bash è un business guru che fonde Steve Jobs ed Elon Musk. Ma soprattutto raccoglie consensi grazie a un’ottima comunicazione progettata per attirare profitti. Confermata dai “we love you” urlati dalla platea e ribaditagli da un bambino che il businessman disprezza. Il denaro e i consensi mossi dai poteri forti aprono facilmente le porte della Casa Bianca e, letteralmente, della stanza dei bottoni che faranno tornare a terra tutti i missili anticometa. Senza tirare in ballo l’astronomia, questi poteri si sono già visti con gli oleodotti avvallati dalle amministrazioni Bush ed ereditati da Obama.

Lo staff della Casa Bianca nel film è una macchietta dell’amministrazione Trump. Non credo alle dichiarazioni della produzione quando afferma che la scelta di Merryl Streep sia arrivata dopo il rifiuto di altre attrici. Interpretare la presidente degli USA è stata una magnifica risposta agli attacchi personali subiti da Trump che la definì “sopravvalutata”. Così indossa il cappellino, scimmiotta in pubblico, nomina il figlio capo di gabinetto. Con Trump si era istituzionalizzato il nepotismo.

Siccome l’ex-presidente era impossibile da volgere al femminile, sulla costruzione del personaggio gli sceneggiatori hanno guardato a Sarah Palin, l’ex governatrice dell’Alaska che si faceva ritrarre col fucile.

Sul tema del non essere troppo crudi con le cifre, invece, i creativi hanno attinto al marketing e si sono basati sulle tecniche presenti nello sketch delle sette linee rosse tracciate con l’inchiostro blu, giusto perché “non bisogna mai essere troppo negativi”.

La nota comica sulla parte televisiva parte dal nome della trasmissione condotta da Brie-Cate Blanchett: Daily RIP. Rip è l’acronimo di rest in peace, riposa in pace. La conduttrice interpretata da Cate Blanchett è un’insulto/denuncia al fatto di essere in video dopo aver portato a letto due presidenti. È praticamente la parodia discutibile del come fare carriera in salsa Weinstein.

Sempre in tema media, se non si viene bene in tv, è pronta la macchina bullizzante che umilia la scienziata interpretata da Jennifer Lawrence. Di casi simili ne è piena la cronaca. La stessa macchina acchiappalike si incendia con la cantante pop interpretata da Ariana Grande, parodia che è via di mezzo tra Chiara Ferragni e le minidive del mondo giapponese.

Un’ultima riflessione scaturisce dai costumi, dove la fiction è stata più realista del re. Vogue ha pubblicato un’intervista a Susan Matheson, la costumista. Leggendola, Ci si rende conto che anche l’apocalisse vuole la sua immagine e non bisogna cascare nella trappola dell’outfit sbagliato.

Melania Trump, elegantissima e bellissima, scivolò sull’abbigliamento visitando un centro di detenzione per bambini lungo il confine col Messico indossando un impermeabile con una scritta che suonava più o meno come un “non me ne frega davvero niente”. Nessuno a Hollywood avrebbe osato tanto. Ma dal vero è successo. Segno che quando ci raccontano una cosa, per quanto incredibile, faremmo meglio a domandarci cosa ci stia dietro. O Sopra. Just look up, please.

C’era una volta (quel) west

Se doveste pensare a un luogo tranquillo dove andare in vacanza e vi piacesse da morire il cinema, ho il posto che fa per voi. Nell’estate in cui sarà meglio avere un po’ di spazio intorno, ecco un angolo d’Europa perfetto per isolarsi come in un film di Lawrence d’Arabia, avventuroso per scoprire l’Indiana Jones che è in voi, ideale per calarvi nel west che ci ha fatto sognare.

Ad attestarlo non sono (solo) io ma la European Film Academy, che ha dichiarato il deserto di Tabernas, in Andalusia, “tesoro della cultura cinematografica europea”. Questa parte della Spagna è strana, non aspettatevi la movida di altre aree. Già il piccolo aeroporto è una scommessa sui freni dell’aereo per non finire a mollo. Giuro, parla una foto per me. Ma il resto arriva subito a ruota.

C’era una volta quel

Vai in albergo e trovi il corridoio costellato delle immagini dei divi che sono passati di lì a girare. E ti viene normale fare la foto tra le star, ma è solo l’inizio. Per i più giovani il riassunto degli scenari potrebbe farlo il video Boum Boum Boum di Mika

Per gli over 40 il riferimento principale è invece al western. Non Arizona o Texas. Ma una terra con strade che tirano dritte come un colpo di fucile e ci trovi il Black Hotel della serie Black Mirror, oppure sterrati contorti che serpeggiano tra le rocce e sei nel West. Non è un West qualsiasi. Niente Arizona o Texas. È quello che c’è nella testa di quando ero bambino, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grosso un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare e il mondo mi sembrava molto più grande. 

Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne. 
Però ero nel film. Lì, a fianco di Henry Fonda e Charles Bronson mentre si guardavano in faccia per minuti infiniti prima di premere il grilletto fatale. Ero al fianco di Clint Eastwood a dargli man forte mentre faceva il giustiziere dell’avamposto di San Miguel. C’ero anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari. 

Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli “altri”. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che oggi è l’adulto. Uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio in maglietta che non in cravatta, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino. Il bimbo di città di allora vive oggi tra i boschi dove la sera vengono a trovarlo lupi e cinghiali.

C’era una volta quel

Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, contiene ancora molto di quei film. Cammini nel deserto di Tabernas tra le location ascoltando le musiche di Morricone. Piangi dalla bellezza. Dall’emozione. Alcune case le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western. Mika è lì, nella finzione, ma tu vai oltre.

Se ti procuri una brava guida, la cosa cambia. Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarmi nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era un’insegna ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che punteggiavano la prateria tracciando una linea verso dei ruderi. Il set di Sergio Leone. L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco. 

Noi da soli, sul set spento dal 1966.  Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza. Ma non è solo West, il deserto di Almeria. Jorge era ben attrezzato e mi ha mostrato come da lì fosse passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con il tank nazista nella saga di Indiana Jones.

È passata di qui anche la più costosa delle serie, la più famosa, la più sopravvalutata. Il regno dei Dothraki in Game of Thrones era a Tabernas. Nel deserto sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco. Ambientazione pomposa anche alla rocca di Almeria, con le scene della reggia del sud affacciate su un giardino fatto di cascatelle che ricordano il passato arabo e il culto di chi aveva già capito quanto l’acqua fosse preziosa.

C’era una volta quel

Potenza della fantasia e della pioggia di milioni rovesciati dalla post produzione della HBO se il deserto di Tabernas continua a entrare nelle nostre case. Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.

Mentre #iorestoacasa i viaggi sono virtuali

Dopo questa tempesta, da qualche parte, dovremo pur ricominciare. Senza dimenticare l’ #iorestoacasa, è giusto tener presente che, oltre la nostra porta, abbiamo sempre e comunque il Paese più bello del mondo. Quello che, prima o poi, tutti torneranno ad invidiarci. È solo questione di tempo. Alla stregua di una piccola valvola di sfogo, ecco qualche suggerimento per uscire di casa solo virtualmente visitando luoghi fantastici attraverso contenuti internet di alta qualità e dall’accesso gratuito.

A Torino come tra le piramidi

Il primo spunto è rivolto a Torino. Nel cuore della capitale sabauda, Christian Greco ci porta nel meraviglioso mondo dei faraoni. Amerete questo direttore di museo che rompe ogni schema per accompagnarci nella storia con la freschezza di un amico d’infanzia che ti porta nella sua stanza dei giochi. È smart nel muoversi tra le teche e i reperti, è capace di attirare e mantenere l’attenzione sui pezzi unici a prescindere che siate un adolescente o un arzillo papà di Indiana Jones, è estremamente competente nel tracciare i collegamenti attraverso le sezioni della collezione egizia più grande del mondo all’esterno dei confini del regno del Nilo.

I grandi artisti al cinema

Un altro spunto ci arriva dalla casa di produzione Magnitudo Film. Attraverso la sezione del suo sito Magnitudo Film Per l’Italia, ha messo a disposizione degli insegnanti e degli appassionati tutti i titoli della stagione appena conclusa. Si parte dal celebrato Leonardo con interventi, tra gli altri, di Massimo Cacciari, Stefano Boeri e del direttore emerito degli Uffizi Antonio Natali. Tra gli altri titoli disponibili gratuitamente spiccano Gianlorenzo Bernini, illustrato nella magnifica cornice della Galleria Borghese, e Antonio Canova, con la carrellata completa delle opere del maestro che furono raccolte dal fratello nella casa museo di Possagno. Mathera ci porta nelle suggestioni della città dei Sassi mentre Palladio ci accompagna tra le perle delle ville venete fino ad una capatina all’ombra del campanile di San Marco.

Plutone e Proserpina, da “Bernini” della MagnitudoFilm

Essere in casa immersi nell’alta definizione è un invito ad calarsi nei backstage dei musei. Vi siete mai chiesti quanta maniacale attenzione ci sia nella cura per le opere d’arte? In tutto il mondo, uno dei punti di riferimento è l’Opificio della Pietre Dure di Firenze. Un viaggio a misura di microscopio ci mostra come da un dipinto si arrivi a un mosaico rinascimentale. Il filmato rientra nel ciclo “La cultura non si ferma” del Mibact. Ampliando l’orizzonte oltre i confini nazionali, il sito dello Smithsonian ha una sezione specifica dedicata al virtual travel

I musei imperdibili

L’articolo più recente, suggerisce una serie di luoghi immancabili che vanno dai Musei Vaticani al Louvre, dal Guggenheim di New York alla National Gallery di Londra, fino ad arrivare al Thyssen-Bornemisza di Madrid e al Museo nella casa natale di Anna Frank. Se siete cintura nera di documentari, appassionati d’arte fino al midollo e non avete ancora visto l’Ermitage, potreste cogliere l’invito di Apple. Per dimostrare le capacità di ripresa dell’ultimo modello di smartphone, ha pubblicato una strepitosa sequenza di oltre cinque ore (cinque!) attraverso i corridoi degli zar a San Pietroburgo.

Nessuno ha scelto volontariamente il periodo di clausura che stiamo attraversando, ma vivere una pandemia coperti da una buona connessione web ha indiscutibilmente i suoi vantaggi. Possiamo scegliere di subire il momento o possiamo decidere invece di considerarlo un’occasione di formazione e magari di scelte future. Guardiamo al lato positivo: quando saremo liberi di spostarci avremo una lista di luoghi da spuntare scoperti nel web. Avete presente la lista dei posti da vedere almeno una volta nella vita? Ecco, immaginate però che sarà ancora più bella perché in cima all’elenco ci saranno innanzitutto le nostre piazze, i nostri parchi e i nostri vicoli, quelli che abbiamo fuori dalla finestra e che non ci parrà vero ricominciare a frequentare. Partirà da lì il nostro nuovo giro del mondo.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

#SeEsciSeiFuori: il tempo in casa nel tempo del virus

#SeEsciSeiFuori: vademecum per adolescenti e

Questo Virus è davvero drammatico, ma nella catastrofe gli va riconosciuto il merito di averci fatto riscoprire una parte di noi che non era affatto scontata. Nel risparmiare commenti sui (sempre meno) disgraziati che ostentano spavalderia in un momento fragile come quello che stiamo vivendo, mi colpiscono le iniziative che in rete incoraggiano comportamenti responsabili, da Alberto Angela alla pagina facebook Odiare Ti Costa.

Riprendo volentieri anche l’iniziativa dell’Associazione Pepita Onlus in collaborazione con Fondazione Carolina. Gli educatori di Pepita hanno stilato un vademecum che suggerisce agli adolescenti come trascorrere le giornate: 12 consigli variopinti per 12 tappe quotidiane alternate a un video tutorial per mamme e papà.

“Siamo da sempre al fianco dei ragazzi e delle loro famiglie – ha spiegato Ivano Zoppi, Presidente di Pepita e Segretario Generale della Fondazione Carolina – a scuola, in oratorio, nelle attività pomeridiane. Ora che la loro quotidianità è stravolta, stiamo ricevendo messaggi da genitori e insegnanti che ci chiedono di suggerire loro qualche attività per ridare una routine alle giornate. Ci siamo messi al lavoro e abbiamo pensato a questo progetto che, grazie al digitale, consente ai ragazzi di sentirsi parte di questa sfida globale e ai genitori di vivere più serenamente questo ritiro forzato dalle abitudini di tutti i giorni”.

Sono 12 spunti mediati attraverso altrettanti post per invitare a essere connessi con sé stessi e con gli altri. Nonostante il target sia rappresentato dai giovanissimi, in realtà tutti possono beneficiare dei suggerimenti, che hanno la loro base in un sensatissimo #SeEsciSeiFuori. Io stesso, che adolescente non sono da secoli, ne ho trovato spunto. Libri, film, socialità via web, approfondimenti nella cultura, spunti di cucina, esercizi fisici sono alcuni degli stimoli proposti.

Prendo spunto da libri e documentari. Tra i libri mi sento di consigliarne uno che ho apprezzato molto per come permettere di riflettere su qualcosa che ci è familiare. Ne Le parole sono importanti, Marco Balzano parte dal nostro quotidiano per entrare nelle parole che mai come in momenti come questo vanno pesate. Non è un vocabolario né un noioso trattato di etimologia. Semplicemente è un viaggio attorno e dentro parole di uso comune che, proprio per la facilità con cui le usiamo, spesso ci scivolano via. Uomo, felicità, social, scuola, fiducia, Resistenza, sono solo alcuni dei capitoli. Non li cito a caso.

Scoprirete una connessione straordinaria non solo tra i significati ma anche per l’influenza che possono avere nella nostra vita. Homo, uomo, ha la stessa radice di humus, terra. L’aggettivo felix, felice, ha la stessa radice di fecundus ed è un termine riferito alla capacità di generare. Humus sta a fecundus come l’uomo sta alla felicità e dunque solo l’uomo felice può dare frutti buoni? Lascio a voi scoprirlo perché, dopo aver letto queste 83 scorrevolissime pagine, sono sicuro che ogni parola che pronuncerete non sarà affidata al vento per essere dispersa. 

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Sei mai stato all’ hotel coyote?

Sei mai stato all’hotel Coyote?

Stefano Paolo Giussani

Sei mai stato nel West? 
Non ti sto chiedendo se hai mai visitato Arizona, Texas o Wyoming. Posti con le strade che tirano dritte come un colpo di fucile e l’asfalto bollente non conosce ristoro per centinaia di miglia, dove la sensazione di solitudine è attenuata – o accentuata, fai tu – solo dal volteggio di un condor sulla tua testa o dal tintinnio di un serpente a sonagli ai tuoi piedi. 
Quello è sì il West, ma oggi. 
Ti parlo invece del West che c’è nella testa di quando eravamo bambini, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grande un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare. 

Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne. 

Oggi al cinema il film ce l’hai di fronte. 
Lì eri dentro. 
C’eri quando Fonda e Bronson si guardavano in faccia per minuti infiniti prima dell’ultima pallottola, eri al fianco di Eastwood quella volta che diventò giustiziere dell’avamposto di San Miguel, c’eri anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari. 

Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli altri. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che sono oggi. Sono uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio nudo che vestito, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino. 

C’era una volta «quel» West, dunque. 
Oggi, trascorse cinquanta primavere, so che quello che vedevo non era neppure il West ma la provincia di Almerìa, nel sud della Spagna. Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, il Deserto de Tabernas. È lì che ci sono ancora le location dei film. Alcune le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western. 

Però, se ti procuri una brava guida, la cosa cambia. 
Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarci nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era una pubblicità ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che puntavano a dei ruderi. 

Eccolo, il set. 
Quello di Sergio Leone. 

L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco. 
Noi da soli, sul set spento dal 1966. 
Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza. 
Non ce l’ho fatta e ho ceduto alla tecnologia. 
Ho acceso Spotify e via, sulle note di Morricone. 
Con gli occhi lucidi, per essere nel mio West, quello vero. 
A un certo punto, Jorge ha acceso il portatile e mi ha travolto con altre storie. Alcune mai sentite, altre che ricordo perfettamente, tra le mie preferite. Così ho scoperto che da lì è passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con un tank nazista. Lungo la statale c’è l’edificio del Black Museum, puntata chiave della serie di Black Mirror. E a proposito di serie, è passata di qui anche l’ultima, la più costosa, la più sopravvalutata, Game of Thrones. Il regno dei Dothraki era qui, potenza della fantasia e della cascata di milioni rovesciati dalla post produzione, nel Deserto de Tabernas sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco. 

Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.

Questo post è stato pubblicato nella newsletter Futura del Corriere della Sera. L’illustrazione è di Riccardo Cusimano.

Guerre Stellari 7, i luoghi della forza dell’universo di Star Wars, senza lasciare la Terra

Ci risiamo, è di nuovo Guerre stellari, Star Wars. Ero al cinema nel 1977 e potrei ancora dirvi dove ero seduto – terz’ultima fila del cinema più grande della mia piccola città – e con chi – mio nonno e mio fratello. Dettagli, ma che mi ricorderanno quanto fosse strepitosa la storia di quel primo episodio quando nei prossimi giorni andrò a godermi Il risveglio della Forza. Non avendolo visto – questione di ore – ed essendo pieni il web e la carovana mediatica di tutte le informazioni, vi risparmio la cascata di dettagli coi quali ci stanno bombardando. Vorrei solo uscire a cena con Harrison Ford, ma nessuno ha pubblicato i suoi recapiti e questa è un’altra storia.

Piuttosto vorrei raccontarvi i luoghi meravigliosi che hanno visto risvegliare la forza facendo da location al nuovo film. Sparpagliati nell’universo nella fantasia del racconto, sono ben saldi sulla terra nella realtà.

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Il Regno Unito e l’Irlanda la fanno da padrone. La foresta di Deam è un luogo talmente incontaminato da essere stata scelta in passato per fare da cornice alle storie di Mago Merlino e Doctor Who. Dalle foto in rete, l’area di Puzzlewood sembra davvero un quadro primordiale. Il Lake District si presta alle scene di natura in campo aperto. L’alternanza di terra e acqua l’ha reso adatto a diventare un campo di battaglia. La base missilistica di Greenham – dismessa dal 1993 – era già finita sui media quando un pilota amatoriale ci ha visto parcheggiati il Millenium Falcon di Han Solo durante le riprese. I vecchi hangar e i boschi che li circondano ben si prestano a un’idea di base sperduta. La palma di luogo isolato, in tutti i sensi, spetta però allo scoglio di Skellig Michael, Patrimonio Unesco sulla costa ovest Irlandese. Sulla sua vetta c’è perfino un monastero e il luogo è talmente impervio da essere impregnato di leggende, arroccate lì da chissà quanto.

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Poi ci sono i deserti, ben due. Quello gelido è tra le nevi dell’Islanda, ma gli esperti sostengono sia stato parecchio ritoccato. Il ghiacciaio di Mývatn e il cratere di Krafla sono luoghi che comunque non hanno bisogno di effetti. L’energia della terra, lì, si respira. Zero effetti anche ad Abu Dhabi. Rub’ al Khali è in una delle aree desertiche più ampie al mondo e la location non ha davvero richiesto sovrastrutture. Peraltro è anche uno dei pochi deserti sul pianeta ad ospitare posti da fiaba con livelli di comfort a cinque stelle. Forse fin troppo, ma le fiabe vogliono i loro posti da principe. Per la cronaca, in passato anche l’Italia fu coinvolta in alcune scene della saga. Ne L’Attacco dei cloni – secondo episodio, il quinto al cinema – la Reggia di Caserta era il palazzo reale di Naboo mentre la villa del Balbianello sul Lago di Como era il luogo dove Anakin and Padmé si sposano.

Del resto, sulla pace della Natura:

Il miglior rimedio per chi ha paura, è solo o infelice, è uscire, andare dove si può stare in pace, soli con il cielo, la natura e Dio. Solo allora ci si rende conto che tutto è come dovrebbe essere.

Anna Frank

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Se è vero che per trovare l’energia basta immergersi nell’incontaminato, forse gironzolando in questi luoghi, riusciremo ad aggiungere suggestioni stellari. Ma questo ce lo racconteremo dopo il film. Che la forza sia con noi, ci sarà utile per superare le file al botteghino.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Aggiornamento: visto il film, è praticamente il primo, solo in versione XXXL, con tutti più grassi, compresa la morte nera.

Esploratori spaziali, space wanderers

L’uomo ha sempre guardato oltre, a quando gli esploratori spaziali? Per quanto abbia cercato nelle ultime 400 generazioni di stabilirsi in villaggi e strutturarsi in comunità, non ha mai smesso di volgere le proprie prue verso l’ignoto. Qualsiasi strumento usasse. Hillary sull’Everest, Armstrong sulla Luna, Cameron in fondo alla Fossa delle Marianne sono solo tra gli esploratori più recenti.

Abbiamo iniziato a guardare oltre la Luna, nel sistema solare e ancora più in là, mandando delle macchine automatiche. Non sappiamo quando saremo in grado di riprendere la corsa verso l’ignoto con missioni pilotate da uomini. Sicuramente non potremo fare a meno dei computer che ormai accompagnano il nostro quotidiano. È anche grazie a loro che possiamo intanto accontentarci di vivere l’esplorazione con la fantasia. Lo fa un curioso cortometraggio dal titolo Wanderers, vagabondi, ma che potremmo anche sottotitolare “Cartoline dal sistema solare”. Vorrei condividere con voi le sensazioni che provoca.

Suggestive le immagini, che potrebbero essere anticipazioni di un futuro non lontanissimo in cui l’uomo lascia la Terra per muoversi nello spazio vicinissimo. Suggestiva la voce, che arriva invece dal passato e mette i brividi. Sono infatti brani tratti da registrazioni dell’astronomo e scrittore Carl Sagan, scomparso nel ’96. Sagan fu uno dei fondatori del Progetto Seti per la ricerca delle intelligenze extraterrestri.

Proprio qui vorrei condividere una visione. Come è la Terra vista da lassù, molto lassù, immaginiamo da un ET che arriva da un’altra galassia? Molto probabilmente un paradiso. Più sguazzo nella fantascienza che tanto mi piace e più mi affeziono al mio pianeta natale (un giorno si dirà così, lo so). Nell’ammirazione di fantapaesaggi incantevoli in cui mi piace perdermi, tengo presente che si tratta si ambienti pur sempre freddi e desolati. Allora mi beo al calore del sole e al respiro dell’aria frizzante, con la certezza che da lassù la Terra sia quel gioiellino che l’universo ci invidia.

Magari da qualche parte un ET sta perfino girando un documentario su di noi.

Sono tornati i prati dopo il sangue della guerra

 

In occasione della ricorrenza della prima guerra mondiale, ho deciso di non perdermi i due film italiani della stagione dedicati all’argomento. Confesso di essere andato alle anteprime con l’occhio un po’ critico del documentarista e con l’aggravante del forte interesse per l’argomento. Torneranno i prati di Ermanno Olmi e Fango e gloria di Leonardo Tiberi mi hanno a loro modo coinvolto. Il forte denominatore comune delle atmosfere rese non si stempera nella forza evocativa delle due pellicole.

Olmi trasporta con la bella fotografia nei silenzi della montagna. C’è molto Deserto dei tartari di Buzzati nella storia di una notte interamente ambientata in una trincea sospesa nel paesaggio argentato dalla luna. Quando la quiete è interrotta da un pesantissimo bombardamento, la pace della montagna sprofonda irrimediabilmente nel dosso dove il sogno di un soldato mostra un larice diventare d’oro e poi bruciare con le vite di molti militi. Manca una storia, ma forse Olmi voleva esattamente questo per intrecciare il non-senso di una guerra che porta in contatto gli uomini senza venire a capo di nulla. Qualche lacuna sui dialoghi è compensata da particolari struggenti come il soldato che bacia il tozzo di pane, l’uomo che canta sulla cima del dosso e la marcia del plotone in ritirata nella neve. Massimo rispetto per il maestro che ha seguito tutte le riprese sfidando il gelo sul set e che chiude con la citazione del padre.

Tiberi la storia invece ce l’ha e la racconta in modo originale. Narrazione in prima persona, intercalarsi frequente di immagini d’epoca colorate allo scopo di avvicinare il pubblico, passaggi intensi dalla zona di fronte a quella delle retrovie dove l’attesa di una notizia dei propri cari era forse ancora più pesante che l’attacco imminente dalla trincea.

Se per il maestro Olmi era abbastanza scontato il traguardo della produzione grazie al suo nome, a Tiberi non si prospettava vita facile. Anche grazie al Banco Desio, è comunque riuscito a creare qualcosa che si avvicina all’esperimento (riuscito) del documentario rafforzato da una linea di fiction. O, se preferite, il viceversa di una storia arricchita dal valore documentario che racconta anche la storia del Milite ignoto. A ognuno la scelta. Ogni occasione è buona per ricordare e il cinema riesce qui a svolgere il suo ottimo servizio, convinto più che mai che andrebbe portato sempre più spesso anche nelle scuole per raccontare con poche immagini quel che tante parole spesso non rendono. Nell’era virtuale, la memoria passa ancora da qui.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Una tassa sul carbone per far girare le pale

La fondazione Leonardo Di Caprio ha finanziato un film di 8 minuti sulla Carbon Tax con la voce dell’attore di Titanic. Dandone notizia, l’Huffington Post americano rimarca il fatto che una tassa sui combustibili fossili potrebbe incentivare l’utilizzo delle risorse rinnovabili, a tutto vantaggio della riduzione di emissioni e danni che le continue estrazioni e il fracking stanno creando.

Il ragionamento funziona. Però già immagino le polemiche in Italia: le pale eoliche fanno schifo e i campi di pannelli solari sono un pugno in un occhio. Nel ginepraio delle opinioni ecologiste o pseudotali si condannano pale e pannelli salvo poi lamentarsi delle emissioni delle ciminiere o dell’impatto delle strutture idroelettriche. Ricordo ancora una frase di un valligiano che si definiva verde e commentava l’installazione della prima pala eolica in Valtellina: «Ci hanno rubato l’acqua e ora ci rubano anche il vento». No comment.

Vediamola in un altro modo. Ci sono aree sottosviluppate e a scarsa vocazione turistica dove l’eolico non sarebbe affatto devastante ma aggiungerebbe risorse e posti di lavoro. Nella stessa misura abbiamo chilometri quadrati di tetti di capannoni e condomini per i quali non sarebbe certo un problema essere rivestiti di celle solari. Forse è sensato imboccare questa strada magari utilizzando i fondi di una Carbon Tax. Continuiamo a digerire le costruzioni che hanno imbrattato la nostra Italia dagli anni ’60 al 2000 senza che nessuno proponga di farle saltare e siamo qui a dire le energie rinnovabili (i cui generatori sono peraltro smontabili) rappresentano un problema?