La famiglia che aiuta le famiglie


Produzione: Caritas 2013
Regia: Valerio Scheggia
Autore: Stefano Paolo Giussani
Durata:  5 documentari da 4′
Location: Cesano Boscone

La Fondazione Istituto Sacra Famiglia garantisce cure continuative a persone con disabilità complesse e ad anziani non autosufficienti.
La Fondazione dedica inoltre servizi alla riabilitazione di particolari tipologie di utenza.

Avere tempo

Non mi stancherò mai di spiegare che per essere liberi bisogna avere tempo: tempo da spendere nelle cose che ci piacciono, poiché la libertà è il tempo della vita che se ne va e che spendiamo nelle cose che ci motivano.
Mentre sei obbligata a lavorare per sopperire alle tue necessità materiali, non sei libera, sei schiava della vecchia legge della necessità.
Ora, se non poni un limite alle tue necessità, questo tempo diventa infinito.
Detto più chiaramente: se non ti abitui a vivere con poco, con il giusto, dovrai vivere cercando di avere molte cose e vivrai solo in funzione di questo.
Ma la vita se ne sarà andata via…
Oggi la gente sembra non accorgersene e si preoccupa soltanto di comprare e comprare e comprare, in una corsa infinita…

Pepe Mujica

Sei un mangiaplastica ma non lo sai (ancora per poco)

Vi siete fatti la dose di plastica anche oggi, rassegnatevi.
Non ve la siete procurata da uno spacciatore, ma l’avete acquistata in negozio o al supermercato, con un aspetto che ritenevate innocuo. L’ avete assunta in dosi considerevoli ma l’effetto lo misurerete solo tra qualche anno.
Ogni settimana ne ingeriamo cinque grammi, la quantità di una carta di credito. A denunciare la circostanza e quantificare la dose è il WWF con un comunicato eloquente.
Siamo stati ingegnosi nel creare un materiale praticamente eterno, al punto che una tanica può impiegare 3 secoli a dissolversi, servono 1000 anni a un contenitore di polistirolo di quelli per il gelato, 30 anni per un innocuo cotton fioc, ma la parte subdola della storia è che questi oggetti non si dissolveranno in un a pattumiera ma negli organismi, nostri e degli altri essere viventi. Non abbiamo ancora affatto chiaro quali saranno gli effetti per la salute.
I nostri fiumi annegano nella plastica al punto da far schifo a vedersi
e ogni giorno ci arrivano notizie di animali soffocati nei nostri mari per aver ingerito oggetti indistruttibili.

Poche ore fa è morta la femmina di dugongo che era diventata un beniamino in Thailandia dopo essere stata salvata da morte certa. Le notizie sono piene della sua foto mentre abbraccia i soccorritori. E’ morta per infezione da plastica.

Non serve volare in luoghi lontani per scoprire come siamo messi. L’Italia è corresponsabile assieme ad Egitto e Turchia di 2/3 della plastica riversata in mare. Il rapporto parla chiaro e la mappa della plastica nel Mediterraneo è agghiacciante. Ma non è ancora nulla rispetto a quel che ci aspetta. Potremmo scoprire che i prossimi esami clinici a cui ci sottoporremo
contempleranno, insieme alle solite voci, la percentuale di plastica che conteniamo.

Mi preoccupa il fatto che nessuno dei medici ce lo stia dicendo apertamente. Le iniziative delle “settimane senza plastica” si moltiplicano ma la verità è che dobbiamo puntare a una vita plastic free, pensandoci quando compriamo oggetti e alimenti in confezioni da gioielleria o quando buttiamo senza riflettere un elettrodomestico non funzionante che invece sarebbe riparabile.

Ieri ero in una pizzeria di una catena molto famosa a Milano e ho chiesto che mi riempissero il bicchiere d’acqua. Non c’è stato verso: se volevo dissetarmi serviva un bicchiere nuovo.
Serve un salto di qualità che si lasci alle spalle il “tanto vale comprarlo nuovo che costa meno” perché quel “costa meno” è solo un valore monetario istantaneo che non tiene conto dei costi reali
di tutta la filiera.

C’è un documentario drammatico sul tema e racconta come ci siano nel mondo aree letteralmente sepolte dalla plastica, con la gente che vive immersa in questo materiale. Le protagoniste sono due famiglie che hanno fatto dei polimeri la loro fonte di sostentamento. Sono quelli con la plastica intorno.
Non vorrei che fosse solo l’inizio. Non servirà andare in Cina e scoprire che i protagonisti di una ipotetica futura seconda parte del filmato saremo noi, quelli con la plastica dentro.

Stonewall – new york, 50 anni fa e oggi

State partendo o avete in programma di andare a New York questa estate? Ecco una miniguida di quel c’è da fare attorno al Pride, che quest’anno è WorldPride.

Sotto tanto colore e rumore, i Pride sono innanzitutto dei momenti sociali. Il picco di questo esercizio di memoria quest’anno è a New York, dove si ricordano i 50 anni di Stonewall e si tiene il World Pride.

Un po’ di storia. Stonewall è il nome di un bar. Nella notte del 28 giugno 1969, un gruppo di giovani si oppose a una retata della polizia, senza avere coscienza dell’ondata che il loro coraggio avrebbe suscitato. Paradossalmente, da lì a un mese una navicella americana sarebbe sbarcata sulla Luna, segnando «un piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l’umanità», ma negli Stati Uniti gli uomini dovevano essere “uomini”, le donne dovevano essere “donne” e le virgolette significano che tra gente dello stesso sesso non ci si poteva scambiarsi effusioni in pubblico, ballare e tantomeno baciarsi. Un esempio su tutti: il Manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association (l’Associazione Americana di Psichiatria) classificava l’omosessualità tra le malattie mentali. Più precisamente, nel 1952 come “disturbo sociopatico della personalità” e nel 1968 più precisamente come “disturbo mentale”.

Tornando allo Stonewall Inn, nacque come un qualsiasi night club di New York. Fiutando un possibile affare, la famiglia mafiosa dei Genovese lo trasformò in un bar per omosessuali, pagando anche tangenti alla polizia per non essere “disturbata” nell’esercizio. Di fatto, tutti quelli che dovevano sapere, avevano ben chiaro che lo Stonewall era l’unico luogo pubblico dove i gay potevano ballare e scambiarsi effusioni senza rischiare l’arresto. Un paradosso che mi tocca da vicino e rende ancora più grave il tutto: l’identità della comunità in cui mi riconosco, ha dovuto passare dalla mafia per innescare il cambiamento. E se questa era New York, immaginiamo il resto dell’America (e del mondo).

Dunque, di fronte alla polizia, alcuni reagirono. Erano persone che oggi identificheremmo come membri della comunità LGBTQ. Ma era il 1969 e la sigla era ancora lontana, la lotta per i diritti era negli stadi embrionali e nessuna parata pubblica era mai stata organizzata. Già 10 anni prima ci fu una rappresaglia della polizia a Los Angeles nei confronti di un gruppo di trans, lesbiche e gay che scesero a manifestare, ma il fatto che Stonewall fosse New York, diede un altro risalto alla notizia. La comunità non chiedeva più solo di essere lasciata in pace, ma rivendicava diritti.

I moti coinvolsero la prima sera 600 uomini e donne, che triplicarono la sera successiva. Il tutto durò una settimana, in cui furono chiamate a sostegno tutte le anime che in qualche modo condividevano la voglia di affermare dei diritti.

«Stonewall fu come un piede improvvisamente pigiato sull’acceleratore – dichiara Cathy Renna, italoamericana dirigente di Target Cue – si passò dai venti all’ora ad andare a tutto gas e le notizie si propagarono velocemente in città come Philadelphia e Washington, dove la comunità era già in fermento».

«I moti di Stonewall furono un punto di svolta e un esempio per la diffusione delle manifestazioni nel mondo – precisa all’LA Times Eric Marcus del comitato Stonewall 50 – e trovo molto ispirante che proprio una delle fette di società che fino ad allora era considerata più debole e timorosa, reagì e si oppose alla polizia».

Già l’anno seguente si organizzarono i primi Pride e una parte di mondo prese coscienza dei diritti di una comunità. Il fatto che, a cinquant’anni di distanza, a New York si ospiti il World Pride è dunque l’occasione per una grande festa che, dicono gli organizzatori, arriverà a richiamare milioni di persone. Per la cronaca, la NYPD (il dipartimento di polizia della città) ha formulato le scuse per quanto successo e ha pure decorato alcune delle sue auto per onorare il Pride. Meglio tardi che mai, si dice.

Tra colore e cultura, che scegliate i giorni del Pride o quelli limitrofi, un po’ di spunti incoraggiano a saltare su un aereo e inserire la Grande Mela nelle prossime destinazioni. Al proposito, la compagnia Air Italy è la prima in Europa ad ammettere tra le generalità di bordo il terzo genere oltre a maschio e femmina, ponendosi di fatto si pone in prima linea nell’accettazione delle diversità.

Il punto di riferimento storico per capire la portata di quanto successe, è alla biblioteca centrale di New York. Il monumentale edificio della Public Library, famoso per aver ospitato i set di moltissimi film ambientati in città, ospita al piano superiore Love and Resistance: Stonewall 50. Nella galleria fotografica c’è la cronistoria di quanto accadde allo Stonewall Inn, ma anche molto di quello che c’era intorno, come libri, riviste, attività culturali, primi tentativi di costruire un’identità che fosse aperta anche all’esterno della comunità. È probabilmente la più completa rassegna mai raccolta, degna anche per trasmettere lo spaccato della città all’epoca.

Nell’area di Christopher Street si organizzano tour guidati. La cartina si scarica gratuitamente in internet, così potete scoprire le tappe e dosarvele anche per conto vostro. La zona è salvaguardata dalla stessa legislazione dei parchi nazionali americani e include tutti i luoghi che toccarono quei giorni, a partire dallo Stonewall Inn e dalla deliziosa piazzetta che lo fronteggia. Se gli interni sono (purtroppo) cambiati, l’esterno e i dintorni si riconoscono facilmente nelle foto dell’epoca. Le statue nel centro dello spazio, con il loro bianco cangiante, sono un monito a ricordare chi ci ha preceduto. Il tour di un’ora tocca il Julius Bar, rimasto identico a quando furono scattate le immagini storiche esposte alla library.

A breve, altre statue, non distanti, ricorderanno Marsha Johnson e Sylvia Rivera. Di fatto, sarà il primo monumento trans della città e, forse, al mondo. Sylvia e Marsha ebbero anche una parte nei moti. Qualcuno sostiene fin dalla prima scintilla, altri riconoscono il coinvolgimento ma solo a moti iniziati. Poco importa: non è questione del “quando” ma del “cosa” si fece. La Johnson fu anche protagonista della serie Ladies and Gentlemen di Andy Warhol, espressamente dedicata dal re della pop art ai volti trans.

Tra i protetti di Warhol, in tema LGBT c’era anche Keith Haring. Aveva solo undici anni nel 69, ma più tardi, già da protagonista della Factory, avrebbe cavalcato il mondo LGBT di New York diventandone una star. Per quanto lo riguarda, la tappa da non mancare, è quella del Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender Community Center. I new yorkers LGBT lo chiamano semplicemente The Center. Era un laboratorio della zona portuale agli albori del ‘900, ma grazie a donazioni oggi è diventato un punto di riferimento della comunità, con ambulatori, studio legale specializzato in difesa dei diritti, un bar, una fornitissima biblioteca e i disegni di Keith Haring nella stanza che era quella dei bagni. Per visitarla, chiedete alla reception e saranno ben felici di indicarvela. Tornerete in Italia avendo visto qualcosa che non è inclusa normalmente sulle guide.

New York rimane la capitale dell’arte contemporanea e non manca di confermarlo anche durante il il Pride Time, che comunque continua fino a metà luglio. Il Guggenhein celebra il momento con una mostra dedicata a Mapplethorpe, ma in giro per la città c’è parecchio fermento.

Vale lo sforzo di portarsi a Broadway e visitare la galleria Leslie Lohman. Nata da un lascito, mostra – senza veli di nessun tipo, preparatevi – una collezione privata con tutti i mostri sacri contemporanei che hanno toccato il tema.

Il Bronx Museum of Art celebra il Pride con una personale di Pacifico Silano sui silenzi subiti da chi, una decade dopo Stonewall, ha visto lo scatenarsi della piaga dell’AIDS.

Nella capitale della street art potrebbe venirvi voglia, come a chi scrive, di fare una scorpacciata di artisti da strada. Seguite il World Mural Project, per scoprire come una carrellata di writers si è misurati a riempire di colore i muri della città. Qualcuno sostiene che il vero talento contemporaneo stia qui, più che nelle gallerie patinate di Braodway.

Per chi pensa ancora che i Pride siano inutili, l’invito è andarci e scoprire il beneficio del contagio positivo. Al World Pride gli eventi sono davvero tanti, compresi quelli espressamente dedicati alle famiglie con bambini e i musical. Al Longacre Theatre c’è in scena The Prom. È la storia, ambientata negli anni ’60, di una ragazza che deve lottare per vedere riconosciuto il proprio amore per una compagna di scuola.

Dalla finestra della mia stanza al Moxy Chelsea ho tutta New York ai miei piedi. L’hotel è tra i più LGBT friendly. E’ un’esperienza andarci anche solo per salire al roof top bar. Ma è anche un’esperienza starci. l’ingresso è molto soft e non fa sentire la mancanza della natura grazie alla parete di verde verticale del negozio di fiori della coppia Putnam & Putnam. La distanza tra il marciapiede di Stonewall e il vetro segna 50 piani e 50 anni. Non c’è nemmeno un davanzale, come fosse un equilibrio precario, basta niente a cadere e tornare indietro. Tra me e il mondo solo una vetrata che si affaccia senza nascondere nulla. Non basterebbe tutta l’estate a vivere la città. Balli, feste, mostre, momenti di riflessione. Sono chiusi dall’orizzonte oltre la Statua della Libertà che è un puntino sullo sfondo. Si dice che a Manhattan l’Hudson sia come l’oceano, oltre la linea della sponda tutto sia lontano. Una copertina del New Yorker disegnata nel 1976 da Steinberg lo spiega benissimo. Ecco, partendo da questa immagine, e dalle grida di protesta del giugno 1969, penso che il più grande successo del World Pride non sarà di raggiungere i quattro milioni di gitanti festosi che tutti si aspettano, ma di sgretolare la distanza tra la Grande Mela e le Stonewall che il mondo purtroppo ancora aspetta.

Dunque grazie NYC per quello che farai. Buon World Pride a te e a tutti quelli che, come solo tu sai fare tra le grandi metropoli, accoglierai a braccia aperte.

Sei mai stato all’ hotel coyote?

Sei mai stato all’hotel Coyote?

Stefano Paolo Giussani

Sei mai stato nel West? 
Non ti sto chiedendo se hai mai visitato Arizona, Texas o Wyoming. Posti con le strade che tirano dritte come un colpo di fucile e l’asfalto bollente non conosce ristoro per centinaia di miglia, dove la sensazione di solitudine è attenuata – o accentuata, fai tu – solo dal volteggio di un condor sulla tua testa o dal tintinnio di un serpente a sonagli ai tuoi piedi. 
Quello è sì il West, ma oggi. 
Ti parlo invece del West che c’è nella testa di quando eravamo bambini, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grande un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare. 

Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne. 

Oggi al cinema il film ce l’hai di fronte. 
Lì eri dentro. 
C’eri quando Fonda e Bronson si guardavano in faccia per minuti infiniti prima dell’ultima pallottola, eri al fianco di Eastwood quella volta che diventò giustiziere dell’avamposto di San Miguel, c’eri anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari. 

Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli altri. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che sono oggi. Sono uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio nudo che vestito, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino. 

C’era una volta «quel» West, dunque. 
Oggi, trascorse cinquanta primavere, so che quello che vedevo non era neppure il West ma la provincia di Almerìa, nel sud della Spagna. Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, il Deserto de Tabernas. È lì che ci sono ancora le location dei film. Alcune le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western. 

Però, se ti procuri una brava guida, la cosa cambia. 
Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarci nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era una pubblicità ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che puntavano a dei ruderi. 

Eccolo, il set. 
Quello di Sergio Leone. 

L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco. 
Noi da soli, sul set spento dal 1966. 
Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza. 
Non ce l’ho fatta e ho ceduto alla tecnologia. 
Ho acceso Spotify e via, sulle note di Morricone. 
Con gli occhi lucidi, per essere nel mio West, quello vero. 
A un certo punto, Jorge ha acceso il portatile e mi ha travolto con altre storie. Alcune mai sentite, altre che ricordo perfettamente, tra le mie preferite. Così ho scoperto che da lì è passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con un tank nazista. Lungo la statale c’è l’edificio del Black Museum, puntata chiave della serie di Black Mirror. E a proposito di serie, è passata di qui anche l’ultima, la più costosa, la più sopravvalutata, Game of Thrones. Il regno dei Dothraki era qui, potenza della fantasia e della cascata di milioni rovesciati dalla post produzione, nel Deserto de Tabernas sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco. 

Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.

Questo post è stato pubblicato nella newsletter Futura del Corriere della Sera. L’illustrazione è di Riccardo Cusimano.

Zeffirelli era anche partigiano e ricordo’ che…

Si è spento Franco Zeffirelli. Da qualche ora si leva un coro di voci a celebrarne giustamente la figura umana e di artista. Nel suo caso credo coincidessero. Vorrei unirmi a chi lo ricorda aggiungendo qualcosa che difficilmente leggerete altrove. 

Dobbiamo ringraziarlo non solo come regista ma anche come partigiano e, se vi sta a cuore il rispetto dei diritti, anche per non aver avuto paura ad ammettere la propria omosessualità in un mondo e in un’area politica (il centro destra) dove il coming out – mi perdoni, Maestro, lei non avrebbe accettato il termine – non è affatto scontato.

Ho contattato Zeffirelli dopo aver letto una bella intervista di Antonio Gnoli per Repubblica. Affatto banale, raccontava lucidamente la storia di uno che, contro i numeri e le probabilità di farcela, riuscì a diventare qualcosa di vicino a una leggenda. Il Maestro – non gli dispiaceva farsi chiamare cosí – stava già male e chi rispose alla mail con la richiesta di intervistare a mia volta il regista declinó gentilmente.

Da anni seguo un progetto per realizzare un documentario sui partigiani e le partigiane omosessuali. Incontrare Zeffirelli mi sarebbe stato utile perchè, tra i grandi italiani, fu uno dei pochi a parlarne. Non essendoci arrivato, non mi rimane dunque che attingere a quel documento del 2013. Gnoli chiese se l’Italia provinciale della sua adolescenza gli stava stretta.

«Non lo so – rispose Zeffirelli – Ciò che a un certo punto avvertii fu il rigetto del fascismo. Improvvisamente vidi nel Duce un pagliaccio e me ne resi conto con dolore, perché fin da bambini eravamo stati nutriti con quel latte lì. Scoprire che era acido fu una grande delusione. Tutto questo agevolò la mia scelta partigiana. Vidi cose terribili, sentii l’orrore della guerra e capii quanta gioventù fu sacrificata. Ma al tempo stesso si aprì un capitolo straordinario della mia vita (…) Scoprii l’amore. Feci la mia conversione sessuale lassù, in montagna. In quegli aspri momenti con la morte che incombeva mi si rivelò l’uomo in tutta la sua straordinaria bellezza. Fu una reazione istintiva, un risveglio, un’attrazione spontanea. Non era solo innamoramento per un corpo maschile, ma sentire una diversa spiritualità».

Zeffirelli non amava affatto il termine gay. «Una parola che odio, offensiva e oscena», dichiarò in un’altra intervista.  Si definiva omosessuale e ammetteva di essere stato sempre discreto nel vivere la sua sessualità, fin dal momento del suo primo rapporto con un compagno di liceo, a cui attribuisce una data precisa perché fu il giorno della morte di Pirandello, nel 1936.

Sono passati anni da quelle dichiarazioni. Forse oggi, chissà, certe prese di posizione azzardate a cui abbiamo assistito gli avrebbero fatto cambiare opinione su un termine che vuole essere inclusivo e non osceno. Lui, che di figli ne ha adottati due, avrebbe avuto forse qualcosa da ribattere alle dichiarazioni del ministro Fontana.

Nessuno ce lo dirà mai, e non ci rimane che scrivere un grazie, comunque, per l’esempio e per aver condiviso un pezzo di storia che rende giustizia a decine di italiane e italiani che hanno combattuto per i diritti di tutti.

AAA cercasi prossimi estinti

Nessuno è così sciocco da credersi immortale, eppure certi comportamenti della razza umana lo lasciano supporre. Nel documentario Dinosaurs, raccontiamo i protagonisti dell’ultima grande estinzione di massa.

165 milioni di anni in un film

I dinosauri sono apparsi 230 milioni di anni fa e hanno regnato per 165 milioni di anni. Provate a contare fino a un milione e poi fatelo per 165 volte. Capirete che sono numeri tali da rendere ridicola la linea evolutiva umana, di appena 7 milioni di anni, limitabile a due per il concetto di uomo come lo intendiamo oggi. Nel film, realizzato con la consulenza del paleontologo divulgatore Stefano Piccini – quello che ha ispirato il Doctor Steve dei science comic – si presenta il percorso che riporta pochi frammenti di ossa fossilizzate ad essere un dinosauro. Ma non è solo questo il punto.

Come racconta Peter Larson, direttore del Black Hills Institute of Geological Research dove è stata girata una parte del film, i dinosauri sono innanzitutto una grande lezione di ecologia:

I fossili non sono rari. In ogni luogo in cui trovi una roccia sedimentaria troverai dei fossili. Avere un fossile da toccare, che un bambino può guardare, insegna a vedere che l’evoluzione è una cosa reale, che questi animali sono cambiati nel tempo e che la Terra è antica. Quindi è una lezione di scienza, una lezione di valore, qualcosa che ci insegna che la scienza e quello che sappiamo della Terra sono cose molto, molto importanti e ci aiutano ad apprezzare davvero l’importanza che ha per noi. È il solo posto dove saremo mai in grado di vivere. Dobbiamo prenderci cura di questo pianeta. L’estinzione è una cosa che accade. Gli animali si estinguono. E anche noi un giorno ci estingueremo. Potrebbe essere tra un milione di anni, oppure tra sei mesi.

Larson non è solo uno scienziato. È un mito. Gli appassionati di tutto il mondo considerano il suo museo a Hill City – South Dakota una specie di luogo sacro. Di fatto è colui che ha portato a noi i due scheletri di T-Rex più completi mai rinvenuti. Nel film c’è anche Ben Pabst, tra i paleontologi viventi più famosi, con un dinosauro che porta il suo nome. I colleghi gli hanno tributato l’onore per gli scavi negli USA e, più recentemente, per le scoperte dei sauri europei. Che Ben abbia lavorato anche nel West si intuisce dall’aspetto, visto che sembra appena uscito da una pagina di Tex Willer. A Frick, nel cantone svizzero di Argovia, sta estraendo dei Plateosauri, tra i pochissimi rinvenuti in posizione eretta perché morti annegati nelle sabbie mobili. Chi crede che la Svizzera sia solo belle montagne e ottimo cioccolato, dovrà ricredersi, il museo del paese è una chicca da non perdere.

Come (ri)nasce un dinosauro

Un film su Cretacico e Giurassico è un po’ il sogno di ogni documentarista. Prima della telefonata in cui la voce del regista tuonava un perentorio “ho un’idea sui dinosauri” e mi proponeva di seguirlo in South Dakota e Wyoming, pensavo che tra scavi e scheletri dei musei passasse solo una spolverata e un po’ di colla. Oggi so che non è così, ci sono studi e storie fatte di tempo (tanto) e pazienza (tantissima). Spero che il film aiuti a rendere questa idea.

Una deriva interessante e inedita è quella che tocca anche il mondo del commercio dei giganti del passato. Luca Cableri è un dealer, un esperto in collezionismo di oggetti originali che gira i mercati di tutto il mondo per farli convergere nel suo Theatrum Mundi. Dal centro storico di Arezzo, dove ha allestito una vera “wunderkammer”, spiega come i dinosauri siano diventati opere d’arte ambite dai più facoltosi. Sua è l’intuizione di portare in un’asta la scena di combattimento tra un allosauro e un brontosauro. Il risultato è stato battuto a più di un milione di euro.

Per promuovere il film, la copia di Stan è stata lasciata una settimana a fissare i viaggiatori in transito nel salone della Stazione Centrale di Milano. Era anche una specie di monito: ricordare che quanto è successo può succedere ancora. L’estinzione esiste, ricorda Larson, solo che – per i segnali che arrivano dagli scienziati in tema di cambiamenti climatici e inquinamento – per la prima volta nella storia della terra, noi rischiamo di fare tutto da soli. Non male per chiudere un ciclo evolutivo.

Quel che Cappuccetto rosso non capirebbe

Lo scorso dicembre mi colpì la notizia di un cacciatore di frodo condannato per aver ucciso selvaggina al solo scopo di accaparrarsi trofei. Praticamente: faceva la posta agli animali selvatici, li ammazzava, staccava loro la testa e lasciava il resto del corpo a marcire nel bosco.

Il tutto, solo per il gusto di appendere al muro il bottino o rivenderlo. Sul mercato un cervo con un palco imponente può valere parecchie migliaia di dollari. Un orso o un lupo ancora di più. Il giudice lo ha condannato a guardare Bambi, in carcere e con una pena esemplare.

Se condividete la scelta del magistrato, leggete I figli del bosco di Giuseppe Festa. È un libro, ma garantisco che davanti ai vostri occhi scorrerà come un documentario. Soprattutto è una storia coinvolgente che vi porterà a seguire due lupi, Ulisse e Achille. Della specie, è anche una sorta di riscatto.

Grazie ai volontari del Centro Monte Adone, i due protagonisti – ma scoprirete che gli attori sono in realtà molti di più – sono stati rimessi in libertà. Giuseppe Festa ha trascorso quindici mesi tra i boschi seguendo le indicazioni dei volontari del centro di recupero che ospita specie a rischio ferite. L’intento è recuperare la fauna senza creare negli animali dipendenza dall’uomo. Il centro non è nuovo a queste esperienze, nel suo passato ci sono storie potenti del legame che gli animali manifestano tra loro e tra loro e noi.

Se non credete che un umano possa riportare in vita un lupo con la respirazione bocca a bocca, godetevi il filmato di Navarre. Ha superato le quattro milioni di visualizzazioni suscitando in chi scrive un fiume di emozioni.

Le stesse che ho ritrovato nelle pagine (ben scritte) di Festa. Il lupo che crea un effetto di spavento sull’umano dovrebbe essere solo in Cappuccetto Rosso. Cito testualmente:

Liberando un lupo, liberiamo noi stessi. Ridiamo energia alla parte più istintiva e selvaggia del nostro essere. Per un istante è come se fossimo noi a schizzare fuori dalla gabbia e a correre liberi nei boschi.

Leggasi: siamo tutti lupi. Con la squadra del Monte Adone, l’autore ha condiviso notti all’addiaccio e infiniti silenzi rotti solo dai fruscii delle zampe nel sottobosco. Il lupo in Italia è oggetto di animate discussioni, come se si potesse schiacciare un interruttore sull’esistenza di un essere che è più padrone della wilderness di quanto non lo siamo noi.

Eppure i lupi sono abbattuti a centinaia ogni anno. Credo che al libro di Festa vada riconosciuto il merito di portarci sul piano dell’equilibrio per capire come un compromesso sia possibile senza farsi sopraffare dalla paura. Capisco le ragioni degli allevatori e di chi vive al margine del bosco (sono uno di quelli e i lupi li sento ululare da vicino) ma la ragionevolezza ci deve portare a capire che dobbiamo qualcosa anche alla natura e al selvaggio. Serve smettere di pretendere che sia lei a doversi adattare a noi. Un cambio di mentalità che Cappuccetto Rosso forse non capirebbe.

Il mare che non ammette sconti

Tra i flagelli che affliggono i mari ci sono la pesca clandestina e i danni provocati da reti killer lunghe chilometri. Gli effetti sono la decimazione degli animali che ci finiscono dentro solo per poi essere ributtati in mare (morti o malconci) e l’aumento delle montagne di plastica che galleggiano negli oceani.

Tra chi è particolarmente attivo nel cercare di contrastare le azioni che danneggiano i mari c’è Sea Shepherd. Una delle loro navi, la Sam Simon, è in questi giorni ormeggiata a La Spezia reduce da una campagna di contrasto alla pesca illegale in Namibia. Ci sono salito a bordo, ho parlato coi membri dell’equipaggio, mi hanno raccontato le condizioni difficili in cui spesso lavorano e operano. Una delle situazioni recenti più impegnative è stata quando per tre giorni e tre notti si sono alternati in turni di due ore per issare a bordo una delle reti killer recuperate dal mare.

È probabile che dalle foto la riconosciate come una di quelle che a colpi di scafo ha disturbato le baleniere giapponesi durante le loro attività truccate da missioni scientifiche. L’incipit del documentario di Animal Planet che racconta alcune delle missioni di Sea Shepherd inizia in modo epico: “Una guerra inizia nelle regioni lontane del pianeta Terra, le acque cristalline dell’Antartide si colorano di sangue. Preparatevi a scene cruente. Il titolo Whale Wars è chiaro nell’anticipare i contenuti. Le immagini sono forti.

Vista da bordo, la nave è curiosa. Intanto è un dono del defunto papà dei Simpson. L’aneddoto da raccontare è che lo scafo stesso era a supporto dell’attività baleniera giapponese, un vero massacro in mare aperto, finché Simon non se n’è fatto carico acquistandola e andando a ritirarla con gli uomini di Sea Shepherd in incognito. Solo un attimo dopo dell’avvenuta consegna, gli uomini e le donne dell’associazione si sono tolte le tute per rivelare il simbolo piratesco che li distingue. La Sam Simon è ora in aiuto agli organi di polizia degli stati che ne fanno richiesta per contrastare le attività illegali. Alla già citata Namibia, si sono aggiunti Gabon e Tanzania.

“Non è il problema di quanti pesci o cetacei si salvano, è piuttosto lo sforzo per creare un tessuto culturale in grado di far capire che le creature marine meritano rispetto”, dichiara Andrea Morello, direttore di Sea Shepherd Italia. In plancia campeggiano le scritte DEFEND – CONSERVE – RESPECT, mentre i caratteri giapponesi sono stati lasciati in ricordo del passato e a monito che c’è sempre un tempo per redimersi e recuperare. A bordo gli ambienti sono spartani, la deroga è la cambusa con stampe colorate e balenottere in peluche appese al soffitto. Anche sulle scale, tra i ponti, c’è spazio per temi marini. C’è perfino un angolo con un piccolo tempietto buddista.

Qualche foto ricorda invece senza sconti i motivi delle missioni. Fondamentalmente, limitare lo spargimento di sangue inutile. Balene squartate sugli spazi aperti, delfini soffocati, foche uccise a sprangate sul cranio per non rovinare la pelliccia. Da una parte l’uomo in tutta la sua crudeltà e dall’altra gente come quelli di Sea Shepherd. Gente che si può anche aiutare finanziandoli anche solo con l’acquisto di un libro e di una maglietta. Skira, ad esempio, ha appena pubblicato il volume fotografico del loro quarantennale. Oppure li si può supportare organizzando eventi, invitandoli a conferenze, perfino imbarcandosi con loro. Se pensate che un mese su una nave a caccia di cacciatori sia troppo caro, ricordate che il mare non ammette sconti. Nessuna pietà per chi lo attenta.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Captains of Operation No Compromise Locky Maclean, Paul Watson, and Alex Cornellisen

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