Felice è il Lupo di paolo cognetti

Ne Le otto montagne con cui ha vinto lo Strega, ma ancora prima ne Il ragazzo selvatico e ora con La felicità del Lupo, Paolo Cognetti è un amplificatore di suoni, odori, gusti. I suoi personaggi si usmano tra loro per scoprire che sanno “di gennaio e di stufa”. Scrive come se dovesse prepararsi a girare un documentario, rivelando la scuola di cinema frequentata.

Per Paolo Cognetti, una stufa non è una presenza casuale, in un rifugio come in una casa

Ne La felicità del lupo, il suo ultimo lavoro da poco in libreria, c’è una pagina magistrale in cui ci rende i predatori che si affacciano per la prima volta a una valle. Il senso dell’esplorazione di Cognetti emerge netto anche nel documentario Sogni del grande Nord, di cui è protagonista e co-autore.

È il viaggio tra la tomba di Raymond Carver e il bus che fu ultimo rifugio per Chirs Mccandless. Il pick up scorre tra le foreste e i golfi dove l’Oceano Pacifico intaglia Canada e Alaska. L’autobus oggi è volato via, letteralmente. Erano in troppi ad averne fatto una specie di Mecca e molti non erano preparati al deserto boreale. Gente che poi è stato necessario soccorrere.

Paolo e Nicola durante una delle conversazioni verso l’Alaska

Il documentario racconta bene lo scrittore, ma rivela anche gli scrupoli della pianificazione con l’amico Nicola Magrin. Nicola è un illustratore, sua è la copertina de Le otto montagne. Nel documentario è l’alter ego perfetto di Paolo, riuscendo a fissare in un’immagine quello che lo scrittore esprime in parole. È anche grazie alle conversazioni tra i due che capiamo come Cognetti sia ben lontano dalla galassia fricchettona dei brand d’alta quota indossati in città. Del resto non avrebbe scelto di lasciare Milano per andare in montagna, non avrebbe scelto di viverci, non avrebbe ululato di fronte al fuoco come ha fatto in una delle scene più toccanti del film. «A volte perfino uno scrittore non trova le parole per descrivere un momento e in quel momento a me venne da ululare», mi ha confessato.

Nei libri Cognetti racconta le anime che ha incontrato sulle sue (otto) montagne, perché lui è un documentarista e proprio per questo sono convinto che non abbia inventato nessuno dei suoi personaggi. Ha descritto solo incontri reali. Ha trovato spiriti universali e di ognuno ha colto gradazioni dell’anima mundi. Perfino nel lupo.

Gli ho chiesto se crede in Dio. La sua risposta è stata no, quantomeno “no, se la domanda è quella asciutta posta così”. Precisa che, vivendo a stretto contatto con la natura, trova la vita un grande mistero. È l’autore da milioni di copie che si domanda cosa ci faccia essere vivi? «È la cosa più vicina a Dio che io riesco a sentire. Faccio fatica a pensare all’universo, ai pianeti, allo spazio. Per me è una dimensione molto collegata alla vita, all’acqua che scorre, a un bosco che cresce. Sento qualcosa di più alto, di duraturo, quasi di eterno rispetto alla mia esistenza che invece è uno spazio di tempo minuscolo».

Dà anche una sua visione del paradiso. «Sono passati quattro lupi davanti alla fototrappola vicino alla baita. Non hanno paura, ho questa immagine del paradiso terrestre che è in realtà il luogo in cui l’uomo e gli altri esseri viventi convivono in armonia. Per me la felicità spezzata della cacciata dal paradiso è questa: gli animali ci temono perché noi siamo la specie più feroce della storia».

Cognetti crede che la cosa più bella che si inizia ad avvertire stando nella natura è il sentirsi solo un pezzettino di un ciclo. «Capisci che nascita, vita e morte sono continui. Ti capita di trovare un animale morto e poi incontri un cucciolo. Sentiamo una primavera, l’estate, l’autunno, poi arriverà l’inverno e significa che moriremo. E partirà la primavera da qualche altra parte».

A uno dei suoi personaggi fa dire che “qualcosa scompare e qualcos’altro prenderà il suo posto, così va il mondo”. In ogni suo romanzo ci siano un “prima” e un “dopo” molto netti. Lo ammette egli stesso quando afferma che il “dopo” del Cognetti documentarista e del Cognetti scrittore, sarà il Cognetti gestore di rifugio.

Con il successo dello Strega è riuscito a ristrutturare la stalla a fianco alla sua baita. Pannelli solari, impianto geotermico, vetrate ad alta efficienza termica, un edificio in grado di produrre l’energia che gli serve e che farebbe contenta Greta Turnberg, “una vera lupa” secondo Paolo. C’è anche una cucina professionale per i risotti in compagnia, perché il Cognetti del futuro lo spiega il Cognetti del presente citando Thoreau. Nel suo capanno a Walden, l’autore di Vita nei boschi aveva un tavolo con tre sedie. Una era per la solitudine della scrittura, una seconda per l’amicizia, una terza per la socialità. Paolo ha pronte un bel po’ di queste terze sedie.

A chi gli chiede dove andrebbe se non in Val d’Ayas, risponde che in una vita parallela forse farebbe come Pietro de Le otto montagne e volerebbe in Nepal. Però non da solo, «prima in un viaggio non avrei mai fatto mancare un libro, e adesso direi anche un amico. Si cambia. Ci piacerebbe che tutto rimanesse immobile, per esempio pensiamo alla montagna come un luogo che dovrebbe essere sempre fermo, ma il tempo scorre. Vorremmo i posti immutabili come li conserviamo nei nostri ricordi. Questo è qualcosa su cui rifletto anche quando si parla del cambiamento climatico. Certi commenti mi sembrano affermazioni di nostalgia, di quando c’erano i ghiacciai e tanta neve».

Gli capita talvolta di trovare indumenti nelle baite abbandonate e gli vengono in mente i pastori che ci hanno dormito, non si sa quanto tempo fa. Si rammarica che siano una razza in via di estinzione, di conoscerne ormai pochi, convinto che in futuro la montagna sarà sempre più un parco da ammirare.

C’è nostalgia nelle sue parole, da chiedergli dove siano allora le sue radici. «Io le sto mettendo lassù, un po’ a sorpresa perché non sono i luoghi dove sono nato. Milano dovrebbe essere la mia casa, però per qualche strano motivo non sento lì le mie radici.»

Il Cognetti di tutti i giorni si sveglia con i ritmi della natura, con un caffè, prestissimo in estate e un po’ più tardi in inverno. Nelle baite c’è sempre da fare. Il fuoco che le scalda è ciò che le rende vive, ma per lui la montagna significa stare all’aperto, lavorando intorno. Ha piantato degli alberi, ha inciso un corso d’acqua, cammina molto. Rimane in giro ore, tornando a casa nel pomeriggio per dedicarsi alla lettura e alla scrittura fino alla cena. Poi arriva il momento di scendere a vedere qualcuno al bar.

«Stare lassù può essere un’illusione – dice – devi coltivare delle cose tu, dove sei, e quindi inizi a capire che cos’è la felicità dell’albero, quella dello stare fermi, del mettere radici. È lì che si inizia a essere rifugio di se stessi».

Questo articolo è pubblicato anche su Huffpost.it.

Just Look Up, Please

Just look up, perché tutto è già successo

Questo è un post per chi ha già visto Don’t look up, la produzione Netflix che continua a far parlare di sé.

Non è una recensione, perché ce ne sono già di ottime in queste pagine. È piuttosto un breve riassunto del perché andrebbe considerato con un’angolazione documentaristica anche se si tratta di un prodotto di fiction. Può sembrare un ossimoro, ma se fotografiamo il film per singoli argomenti non lo è. Tutto è già successo. Il poster stesso dichiara che il film è basato su fatti realmente possibili, ma è più corretto affermare che tutto quel che c’è nel film si è già verificato (e dovrebbe farci riflettere).

È un esempio di vena comica su un evento catastrofico, come ci erano già passati Stranamore e un’indimenticabile pagina di Stefano Benni. Nel piccolo delle nostre esistenze, non siamo distanti dalla vis comica di Fantozzi, una vita reale che viene estremizzata al ridicolo anche se Fantozzi è tutti noi.

Quando si entra al museo di Storia Naturale a Londra, all’inizio del percorso di visita, una lunga linea del tempo ci ricorda che gli ELE (Extinction Level Event – eventi di portata tale da provocare l’estinzione di massa) sono fenomeni naturali e il nostro pianeta ne ha già vissuti almeno cinque. Dunque il film parte da un presupposto reale e possibile per quanto raro.

Proprio per questa rarità, tutta la macchina narrativa è un pretesto. Nessun politico denuncerà l’arrivo di un killer di pianeti contro il quale potremo ben poco e che quando arriverà sarà tenuto nascosto il più possibile per non creare panico. Lo sapremo da qualche scienziato e attraverso la rete. Il film, come spiega Leonardo di Caprio nel suo commento, è un monito a non ignorare i messaggi della scienza. Sul clima – e non entro nel merito della cronaca covid – la scienza è continuamente messa in discussione contro l’evidenza dei dati.

Nel film il suo personaggio lo ribadisce più volte: ragioniamo sulle evidenze inconfutabili.

Il paradosso continua con certe abitudini reali della comunità planetaria. In ordine sparso qualche esempio.

Il proprietario della Bash è un business guru che fonde Steve Jobs ed Elon Musk. Ma soprattutto raccoglie consensi grazie a un’ottima comunicazione progettata per attirare profitti. Confermata dai “we love you” urlati dalla platea e ribaditagli da un bambino che il businessman disprezza. Il denaro e i consensi mossi dai poteri forti aprono facilmente le porte della Casa Bianca e, letteralmente, della stanza dei bottoni che faranno tornare a terra tutti i missili anticometa. Senza tirare in ballo l’astronomia, questi poteri si sono già visti con gli oleodotti avvallati dalle amministrazioni Bush ed ereditati da Obama.

Lo staff della Casa Bianca nel film è una macchietta dell’amministrazione Trump. Non credo alle dichiarazioni della produzione quando afferma che la scelta di Merryl Streep sia arrivata dopo il rifiuto di altre attrici. Interpretare la presidente degli USA è stata una magnifica risposta agli attacchi personali subiti da Trump che la definì “sopravvalutata”. Così indossa il cappellino, scimmiotta in pubblico, nomina il figlio capo di gabinetto. Con Trump si era istituzionalizzato il nepotismo.

Siccome l’ex-presidente era impossibile da volgere al femminile, sulla costruzione del personaggio gli sceneggiatori hanno guardato a Sarah Palin, l’ex governatrice dell’Alaska che si faceva ritrarre col fucile.

Sul tema del non essere troppo crudi con le cifre, invece, i creativi hanno attinto al marketing e si sono basati sulle tecniche presenti nello sketch delle sette linee rosse tracciate con l’inchiostro blu, giusto perché “non bisogna mai essere troppo negativi”.

La nota comica sulla parte televisiva parte dal nome della trasmissione condotta da Brie-Cate Blanchett: Daily RIP. Rip è l’acronimo di rest in peace, riposa in pace. La conduttrice interpretata da Cate Blanchett è un’insulto/denuncia al fatto di essere in video dopo aver portato a letto due presidenti. È praticamente la parodia discutibile del come fare carriera in salsa Weinstein.

Sempre in tema media, se non si viene bene in tv, è pronta la macchina bullizzante che umilia la scienziata interpretata da Jennifer Lawrence. Di casi simili ne è piena la cronaca. La stessa macchina acchiappalike si incendia con la cantante pop interpretata da Ariana Grande, parodia che è via di mezzo tra Chiara Ferragni e le minidive del mondo giapponese.

Un’ultima riflessione scaturisce dai costumi, dove la fiction è stata più realista del re. Vogue ha pubblicato un’intervista a Susan Matheson, la costumista. Leggendola, Ci si rende conto che anche l’apocalisse vuole la sua immagine e non bisogna cascare nella trappola dell’outfit sbagliato.

Melania Trump, elegantissima e bellissima, scivolò sull’abbigliamento visitando un centro di detenzione per bambini lungo il confine col Messico indossando un impermeabile con una scritta che suonava più o meno come un “non me ne frega davvero niente”. Nessuno a Hollywood avrebbe osato tanto. Ma dal vero è successo. Segno che quando ci raccontano una cosa, per quanto incredibile, faremmo meglio a domandarci cosa ci stia dietro. O Sopra. Just look up, please.