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Felice è il Lupo di paolo cognetti

Ne Le otto montagne con cui ha vinto lo Strega, ma ancora prima ne Il ragazzo selvatico e ora con La felicità del Lupo, Paolo Cognetti è un amplificatore di suoni, odori, gusti. I suoi personaggi si usmano tra loro per scoprire che sanno “di gennaio e di stufa”. Scrive come se dovesse prepararsi a girare un documentario, rivelando la scuola di cinema frequentata.

Per Paolo Cognetti, una stufa non è una presenza casuale, in un rifugio come in una casa

Ne La felicità del lupo, il suo ultimo lavoro da poco in libreria, c’è una pagina magistrale in cui ci rende i predatori che si affacciano per la prima volta a una valle. Il senso dell’esplorazione di Cognetti emerge netto anche nel documentario Sogni del grande Nord, di cui è protagonista e co-autore.

È il viaggio tra la tomba di Raymond Carver e il bus che fu ultimo rifugio per Chirs Mccandless. Il pick up scorre tra le foreste e i golfi dove l’Oceano Pacifico intaglia Canada e Alaska. L’autobus oggi è volato via, letteralmente. Erano in troppi ad averne fatto una specie di Mecca e molti non erano preparati al deserto boreale. Gente che poi è stato necessario soccorrere.

Paolo e Nicola durante una delle conversazioni verso l’Alaska

Il documentario racconta bene lo scrittore, ma rivela anche gli scrupoli della pianificazione con l’amico Nicola Magrin. Nicola è un illustratore, sua è la copertina de Le otto montagne. Nel documentario è l’alter ego perfetto di Paolo, riuscendo a fissare in un’immagine quello che lo scrittore esprime in parole. È anche grazie alle conversazioni tra i due che capiamo come Cognetti sia ben lontano dalla galassia fricchettona dei brand d’alta quota indossati in città. Del resto non avrebbe scelto di lasciare Milano per andare in montagna, non avrebbe scelto di viverci, non avrebbe ululato di fronte al fuoco come ha fatto in una delle scene più toccanti del film. «A volte perfino uno scrittore non trova le parole per descrivere un momento e in quel momento a me venne da ululare», mi ha confessato.

Nei libri Cognetti racconta le anime che ha incontrato sulle sue (otto) montagne, perché lui è un documentarista e proprio per questo sono convinto che non abbia inventato nessuno dei suoi personaggi. Ha descritto solo incontri reali. Ha trovato spiriti universali e di ognuno ha colto gradazioni dell’anima mundi. Perfino nel lupo.

Gli ho chiesto se crede in Dio. La sua risposta è stata no, quantomeno “no, se la domanda è quella asciutta posta così”. Precisa che, vivendo a stretto contatto con la natura, trova la vita un grande mistero. È l’autore da milioni di copie che si domanda cosa ci faccia essere vivi? «È la cosa più vicina a Dio che io riesco a sentire. Faccio fatica a pensare all’universo, ai pianeti, allo spazio. Per me è una dimensione molto collegata alla vita, all’acqua che scorre, a un bosco che cresce. Sento qualcosa di più alto, di duraturo, quasi di eterno rispetto alla mia esistenza che invece è uno spazio di tempo minuscolo».

Dà anche una sua visione del paradiso. «Sono passati quattro lupi davanti alla fototrappola vicino alla baita. Non hanno paura, ho questa immagine del paradiso terrestre che è in realtà il luogo in cui l’uomo e gli altri esseri viventi convivono in armonia. Per me la felicità spezzata della cacciata dal paradiso è questa: gli animali ci temono perché noi siamo la specie più feroce della storia».

Cognetti crede che la cosa più bella che si inizia ad avvertire stando nella natura è il sentirsi solo un pezzettino di un ciclo. «Capisci che nascita, vita e morte sono continui. Ti capita di trovare un animale morto e poi incontri un cucciolo. Sentiamo una primavera, l’estate, l’autunno, poi arriverà l’inverno e significa che moriremo. E partirà la primavera da qualche altra parte».

A uno dei suoi personaggi fa dire che “qualcosa scompare e qualcos’altro prenderà il suo posto, così va il mondo”. In ogni suo romanzo ci siano un “prima” e un “dopo” molto netti. Lo ammette egli stesso quando afferma che il “dopo” del Cognetti documentarista e del Cognetti scrittore, sarà il Cognetti gestore di rifugio.

Con il successo dello Strega è riuscito a ristrutturare la stalla a fianco alla sua baita. Pannelli solari, impianto geotermico, vetrate ad alta efficienza termica, un edificio in grado di produrre l’energia che gli serve e che farebbe contenta Greta Turnberg, “una vera lupa” secondo Paolo. C’è anche una cucina professionale per i risotti in compagnia, perché il Cognetti del futuro lo spiega il Cognetti del presente citando Thoreau. Nel suo capanno a Walden, l’autore di Vita nei boschi aveva un tavolo con tre sedie. Una era per la solitudine della scrittura, una seconda per l’amicizia, una terza per la socialità. Paolo ha pronte un bel po’ di queste terze sedie.

A chi gli chiede dove andrebbe se non in Val d’Ayas, risponde che in una vita parallela forse farebbe come Pietro de Le otto montagne e volerebbe in Nepal. Però non da solo, «prima in un viaggio non avrei mai fatto mancare un libro, e adesso direi anche un amico. Si cambia. Ci piacerebbe che tutto rimanesse immobile, per esempio pensiamo alla montagna come un luogo che dovrebbe essere sempre fermo, ma il tempo scorre. Vorremmo i posti immutabili come li conserviamo nei nostri ricordi. Questo è qualcosa su cui rifletto anche quando si parla del cambiamento climatico. Certi commenti mi sembrano affermazioni di nostalgia, di quando c’erano i ghiacciai e tanta neve».

Gli capita talvolta di trovare indumenti nelle baite abbandonate e gli vengono in mente i pastori che ci hanno dormito, non si sa quanto tempo fa. Si rammarica che siano una razza in via di estinzione, di conoscerne ormai pochi, convinto che in futuro la montagna sarà sempre più un parco da ammirare.

C’è nostalgia nelle sue parole, da chiedergli dove siano allora le sue radici. «Io le sto mettendo lassù, un po’ a sorpresa perché non sono i luoghi dove sono nato. Milano dovrebbe essere la mia casa, però per qualche strano motivo non sento lì le mie radici.»

Il Cognetti di tutti i giorni si sveglia con i ritmi della natura, con un caffè, prestissimo in estate e un po’ più tardi in inverno. Nelle baite c’è sempre da fare. Il fuoco che le scalda è ciò che le rende vive, ma per lui la montagna significa stare all’aperto, lavorando intorno. Ha piantato degli alberi, ha inciso un corso d’acqua, cammina molto. Rimane in giro ore, tornando a casa nel pomeriggio per dedicarsi alla lettura e alla scrittura fino alla cena. Poi arriva il momento di scendere a vedere qualcuno al bar.

«Stare lassù può essere un’illusione – dice – devi coltivare delle cose tu, dove sei, e quindi inizi a capire che cos’è la felicità dell’albero, quella dello stare fermi, del mettere radici. È lì che si inizia a essere rifugio di se stessi».

Questo articolo è pubblicato anche su Huffpost.it.

Il dalai lama e la nostra casa comune

Tra i grandi voti che pronunciano i monaci buddisti si recita “per quanto numerosi siano gli esseri, faccio voto di farli pervenire tutti alla liberazione”. Non solo il genere umano, dunque, ma tutti gli esseri viventi, compresi quelli del regno vegetale, sono degni di rispetto.

Che il nostro pianeta non sia una entità morta lo trasmettono anche i nativi americani per i quali Madre Terra è viva e tutti dipendiamo da lei per l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, il cibo con cui ci nutriamo. Tra le grandi filosofie e le religioni più diffuse ad esse collegate, il buddismo è probabilmente quella più vicina all’idea di Gaia, opposta a quella di certe impostazioni del pensiero occidentale che inquadrano l’uomo “misura di tutte le cose”, come sosteneva Protagora, e gli animali come macchine, con le parole di Cartesio ad affermare che “grazie alla scienza, l’uomo sarà d’ora innanzi il padrone e il possessore dell’universo”. 

Nel libro Amiamo il pianeta. Un appello per salvare la nostra unica casa, il Dalai Lama Gyatso Tensin sintetizza le ragioni perché non possiamo fare a meno di allontanarci da certi pensieri antropocentrici.

«Abbiamo bisogno di una rivoluzione della compassione – dichiara Sua Santità – che dipende dal calore, dalla comprensione della coesione dell’umanità, dalla preoccupazione per il benessere degli altri e dal rispetto per i loro diritti. L’intera famiglia umana deve riunirsi in una comunità sostenibile, globale ed ecologica, che collabora e si prende cura della nostra casa».

Il pensiero buddista, avallato un comitato scientifico internazionale, è presentato in versione video da Feedback Loops, una miniserie di documentari visibili a tutti. All’evento di presentazione, il Dalai Lama era affiancato da Greta Thunberg, mentre i testi originali sono letti da Richard Gere, che da anni ha abbracciato la fede buddista.

Proprio Sua Santità il Dalai Lama, domani 7 aprile all’alba, terrà un insegnamento sulle Quattro Nobili Verità (denpai shi), seguito da una sessione di domande e risposte. I contenuti saranno disponibili nei prossimi giorni sui social dell’Unione Buddista Italiana

Per il buddismo sono le fasi nella comprensione di ogni verità che ci permettono di capire quale deve essere la nostra posizione, fisica e mentale, su questa Terra che ci ospita. Ancora una volta, fede e scienza non sono poi così distanti nell’affermare che la logica del profitto a tutti i costi non è quella che deve guidarci. È forse la ragione per cui nasciamo persone, non amministratori delegati.

Il Ring degli Angeli – Dicono di lui…

Il Ring degli Angeli
Il Ring degli Angeli

In ogni circostanza il libro è intriso di tenerezza. C’è, in questi sedici racconti e una fiaba, la felicità.

Corriere della Sera

C’è la vita vera, quella che tanti omosessuali vivono sulla loro pelle, la discriminazione, i diritti non riconosciuti.

La Repubblica

Ne escono personaggi attinti alla fantasia, ma anche all’esperienza diretta dell’autore, per mostrare che non ci sono limiti alla declinazione degli affetti, a prescindere dalla condizione sociale e dalle circostanze.

Affaritaliani.it

Il libro vuole dire un no convinto all’omofobia e nasce dal primo crowdfunding italiano dedicato a una raccolta di racconti LGBT.

Booksblog.it

Il perché di un libro LGBT, “Il ring degli angeli – sedici racconti e una fiaba”

L’uso che si fa di un libro, può essere sbagliato?

Lo confesso: a me il modo in cui manifestano le sentinelle in piedi piace. Nell’epoca delle urla televisive e degli imbonitori della rete, schierarsi in silenzio e manifestare la propria idea con un libro in mano è molto più provocatorio. E mi disturba, non avete idea quanto, che lo facciano loro. Però c’è una contromisura che attacca la (in)coerenza delle sentinelle. Chi legge un libro, di solito, dovrebbe avere le idee più aperte, ma nel caso di questi lampioni della fede da piazza questo mi sembra non valga. Così provo a lanciare una provocazione garbata. Manifesti con un libro? Eccotene uno! Con la copertina bella colorata, magari.

Ho voluto tentare un’operazione insolita: raccogliere un gruppo di amici che condividono la mia idea sulle sentinelle e credono nel potere della parola, rispolverare alcuni racconti scritti in passato, pubblicarli (anche) con il sostegno del gruppo, riportare tutti i nomi dei sostenitori in una pagina e diffondere.

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Dicono che in Italia sia difficile pubblicare dei racconti. È anche un dato di fatto che da noi sia inusuale pubblicare storie gay. Per qualcuno potrebbe essere la cronaca di un fallimento annunciato, ma ogni tanto qualche sfida bisogna accettarla: ho riunito 16 racconti e una fiaba. Alcune storie hanno qualche anno, qualcuna è più recente, la fiaba risale al Natale 2014 ed è stata scritta con due bambini di 10 e 7 anni che non hanno distinto il termine amore in base al sesso. Sono storie che hanno girato l’Italia per i contenuti, hanno girato l’Italia anche in concorsi e rassegne, hanno girato perfino fisicamente, nel taccuino, quando arrivando in un luogo iniziavo ad annotare quello che respiravo intorno a me. C’è il passato, il presente e perfino il futuro. C’è un po’ di western e un po’ di Medioevo. C’è la montagna e c’è la città. Ci sono racconti basati su fatti veri e storie inventate, ma ambientate in contesti reali. Per campare scrivo documentari e faccio il giornalista, quindi chiedo scusa in anticipo se, facendo prevalere il reale o il verosimile, ho mancato nella fantasia in cui gli scrittori di professione se la cavano meglio. Abbiate pazienza, essendo un’operazione senza fini di lucro, sarebbe indelicato chiedere il rimborso al libraio.

Spero ci sia, in chiunque condivida lo spirito di questi racconti, la soddisfazione della scoperta e della curiosità. Spero ci sia anche la forza di accettare la scommessa. L’omofobia si può combattere, anche così. Magari un racconto riesce ad assestare un colpo più forte di un’azione fisica e alla fine cambiare il pensiero di una persona. Magari, e me lo auguro con tutta la forza che ho in corpo, una delle storie avrà anche la capacità di infondere coraggio in chi, nella comunità LGBT, si sente attaccato o emarginato. Nessuno va lasciato solo in una battaglia. E purtroppo le affermazioni e i gesti di certi politici in cerca di sostegno da trogloditi elettorali, di opinionisti da bancarella e di persone dalla mente contorta ci dicono che siamo in una battaglia. Da una parte loro e le sentinelle. Dall’altra parte un mondo che crede nel rispetto e nella tolleranza per chi ha gusti non uniformati alla maggioranza, ma rispetta gli altri, contribuisce alla società e paga pure le tasse, anche se non vede tutti i suoi diritti riconosciuti. La fortuna dei primi è il silenzio dei secondi. Dobbiamo reagire. Ognuno usi i mezzi di cui dispone. Il sottoscritto e altre cento persone lo hanno fatto con Il ring degli angeli. Chiunque ci creda, può unirsi a noi facendosi una foto col libro o con la stampa della copertina. Sentinelle, state pure in piedi, perché qui non c’è posto per l’intolleranza.

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Il mondo con gli occhi di chi guarda le mosche

Se un giorno un appassionato di letture dovesse consigliarvi un libro scritto da un entomologo sulle mosche di un’isoletta del Baltico, aspettate a ridergli in faccia. L’arte di collezionare mosche sembra il titolo di un libro che invita ad armarsi di retino e iniziare a catalogare serfidi. Ecco, forse in parte lo è. Gli entomologi italiani lo definiscono “un biglietto per alcune ore di intenso piacere“, ma si sa, giocano in casa. Per chi scrive è invece una lettura molto ispirante che trasforma l’attività dell’autore in una porta per il mondo e che induce almeno tre riflessioni.

La prima. Un fazzoletto di terra di 15 chilometri quadrati – Runmarö, a Est di Stoccolma – come quello dove si è rintanato l’autore può essere l’isola più pallosa del mondo se vi accontentate del superficiale. Diventa invece un mondo intero se ci si abitua ad osservare il molto piccolo, pratica che a un entomologo come Fredrik Sjöberg riesce evidentemente facile. Ma l’autore non è solo un entomologo tra i principali esperti al mondo in mosche, ma un fine narratore.

Qui arriva la seconda riflessione, il soggetto è anche un acuto catalogatore di fotografie di paesaggio e ritratti di personaggi noti e meno noti. Da Bruce Chatwin al naturalista Malaise. Riesce a raccontare scorci di vita come il caso di un Rembrandt scomparso con altre tele e un cesso a due posti ritrovato in un rudere. Scenette dipinte con la stessa forza. Tanto per dare un’idea della fecondità del personaggio, sappiate che tre sue teche sono state esposte anche alla Biennale d’Arte di Venezia. Non male se si pensa che la mosca è mediamente un animale associato agli escrementi. Perfino sul tema – cacca! – Sjöberg riesce a mettere mosche e narrazione in una forma di racconto che attrae, viaggiando nel tempo e nello spazio.

Bella Mosca, dal comportamento capriccioso. Probabilmente ha avuto problemi di sopravvivenza perché da tempi memorabili, forse milioni di anni, la sua strategia è stata di farsi passare come una pecora travestito da lupo, per il fastidioso Oestrus bovis. Sono davvero molto simili. Una mucca non nota nemmeno la differenza, come del resto nessun altro. C’è solo un problema: che alle nostre latitudini lo Oestrus bovis visse e si estinse un sacco di tempo fa. E così se ne è andata la protezione della somiglianza. Forse è per lo stesso motivo che restiamo sbigottiti davanti ai colori di certi insetti, talmente bizzarri che non sarebbero venuti in mente a un surrealista drogato: è possibile che non siano altro che imitazioni di qualcosa che non c’è più. Spiegare la rarità è un’arte, né più né meno. A volte non si riesce a sottrarsi alle domande dell’osservatore casuale senza ripetere la storia del raro scarabeo stercorario dell’Himalaya, animale che un tempo prosperava tra i maestosi mucchi di letame dei mammut, ma che ora deve tirare avanti, come un principe russo in esilio, con i miseri escrementi degli yak. Quanto più ci penso tanto più sono convinto che sia stato un grande errore sostituire “storia naturale” con l’arido termine di “biologia”

Concludo con il terzo elemento. Potete tranquillamente fermarvi qui se non siete appassionati di documentari. Non lo avete fatto! Quindi eccovi una chicca dell’autore sul tema della natura mostrata in tv e nei film. È un testo che che passerò a tutti i colleghi documentaristi e a quelli che si rivolgono a noi con un sospirante “beato te che sei sempre in giro”. In poche righe, Sjöberg racconta l’arcano di come la telecamera renda favoloso il nostro lavoro quando invece…

La foresta tropicale è al suo meglio in televisione. Certo può succedere che la giungla sia bella e piacevole anche vista da vicino, nella vita reale, ma credetemi: di solito si presenta come un’orgia disgustosa in cui tutto punge e morde, i vestiti si incollano al corpo come pellicole di plastica. Il sole non lo si vede nemmeno, perché la fitta vegetazione si inarca in una volta, come un umido soffitto di cantina, sopra il sentiero trasformato degli acquazzoni in un rigagnolo scivoloso dove soltanto le sanguisughe si trovano a loro agio. Le zanzare portatrici di malaria sferrano i loro attacchi e il solo pensiero del morso dei serpenti, delle gambe rotte e della dissenteria fa sprofondare l’umore come un sasso nell’acqua. Tanto più se la distanza dalla strada più vicina viene misurata in giornate di cammino, il che ai tropici avviene spesso, e di conseguenza i visitatori nordici, all’inizio così ostinatamente assetati di avventura, se ne stanno ore lui al buio, sul terreno fradicio e marcio della foresta tropicale, scoraggiati, disperati, a parlare quasi esclusivamente della consistenza dei loro escrementi, e per il resto incapaci di formulare altro che pensieri elementari. Portatemi via di qui. Datemi una birra.

Sarà anche un parere partigiano, ma consiglierei questo libro se anche fosse stato di questa sola pagina.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Mattarella e La Cava, le pagine di un presidente

Mattarella è un presidente che, a mio parere, è partito col piede giusto. Di lui stiamo leggendo un po’ di tutto e forse iniziamo ad averne le orecchie piene. Vorrei, però, concentrarmi solo per un attimo su un suo gesto perché, se il buongiorno si vede dal mattino, penso che da questa figura possiamo aspettarci molto. Un capo di Stato che comincia dalle Fosse Ardeatine non è solo un uomo che rende omaggio a un eccidio. E’ il segnale che proprio partendo dalla nostra storia bisogna guardare avanti. Non sono le Fosse in quanto tali, mai abbastanza ricordate, ma il gesto del visitarle come primo atto. Sostituiamo pure storia con cultura, tradizioni, eventi che ci hanno segnato, mettete quello che volete ma posso quasi sapere solo il minimo indispensabile di Mattarella per mettere il primo like. Il suo si chiama “rispetto”.

Mi viene in mente una frase di Marguerite Yourcenar:

Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito.

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Per quanto mi riguarda, l’essersi infilato in quella cavità maledetta fa di Mattarella uno che le pagine scritte, piacciano o non piacciano, le legge, le rispetta, le porta con sé. Vedo le Fosse Ardeatine come una biblioteca con 335 storie urlate e spezzate. Con la visita delle scorse ore, sono state raccolte, spolverate e ordinate su uno scaffale e ritornate ad essere davvero un monito contro l’inverno dello spirito.

Trovo un certo parallelismo con un altro uomo, affatto famoso, forse meno titolato, forse senza calcolo politico – non so se Mattarella ne abbia ma qui non mi interessa – forse che non ha subito quello che la vita ha già riservato al neo presidente. Sicuramente è uno che non conoscerà né i riflettori della cronaca, né i saloni pomposi di Roma. Si chiama Antonio La Cava e ha perfino una fan page di facebook che lo acclama presidente della Repubblica. Antonio è un maestro elementare che, dopo 42 anni di servizio, anziché godersi la pensione in santa pace, ha preso un apecar e lo ha trasformato in biblioteca ambulante. Avete letto bene. Gira con il suo biblioautocarro tra i paesini della Lucania a trasmettere la passione per i libri e le storie. 500 chilometri al mese sono davvero tanti e sono quelli che macina tra le piazze annunciandosi al suono di un organetto.

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Ecco, forse, la chiave di tutto. Passione. Grazie Sergio, Grazie Antonio, vecchie pagine e vecchie piazze vi aspettano per essere rinfrescate dal vostro rispetto. Son pronto a scommettere che non ci deluderete.

Post scriptum. Mentre sto per chiudere il pezzo, apprendo che oggi (domenica) il Presidente, quello che sta a Roma, ha scelto di spostarsi a piedi nel centro per rispettare il blocco del traffico come tutti gli altri cittadini. L’esempio scende dall’alto e io gli appioppo subito un altro like.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Il rimedio è nel male

In quale direzione sta andando l’ecologismo? Esprimono opinioni gli scienziati, i politici, i militanti, li ascoltano gente come chi scrive, che compie ogni giorno piccoli gesti senza clamore come preferire la bici all’auto e buttare il preziosissimo alluminio solo nei cassonetti dedicati.

Recentemente si è aggiunto in libreria il pensiero del filosofo. Guanda ha appena pubblicatoIl fanatismo dell’apocalisse di Pascal Bruckner. Il pensiero del “polemista” francese (la definizione arriva dal risvolto di copertina) si riassume in una frase dell’epilogo:l’ambientalismo catastrofista è una catastrofe per l’ambiente. La sua posizione sintetizzata in poche righe stralciate dalle pagine:

Se nel prossimo secolo si dovrà sviluppare una generosa tutela dell’ambiente, sarà in funzione dell’uomo e della natura nella loro interazione reciproca, non come avvocato ventriloquo di un’entità chiamata terra. Gli amici della terra sono stati troppo a lungo nemici dell’umanità: è ora che l’ambientalismo dell’ammirazione prenda il posto dell’ambientalismo dell’accusa. Potremmo essere all’alba di un rinnovamento senza precedenti dell’architettura, dell’industria, dell’agricoltura. Ogni nuova invenzione deve fare colpo sul desiderio umano, generare stupore, sorpresa, condurre popoli in un viaggio inedito. È una porta stretta (Luca 13, 24) ma è la porta della salvezza. Se nel prossimo secolo si dovrà sviluppare una generosa tutela dell’ambiente, sarà in funzione dell’uomo, della natura, nella loro interazione reciproca e non come avvocato ventriloquo di un’entità chiamata terra.

La citazione forte che ricorderò è il rimedio è nel male.

Il rimedio è nel male in questa civiltà industriale tanto biasimata, in questa scienza che spaventa, in questa crisi che non finisce mai, in questa globalizzazione. Solo un aumento delle ricerche, un’esplosione di creatività, un salto tecnologico inedito potranno salvarci. Dobbiamo solo sforzarci di allontanare le frontiere dell’impossibile, incoraggiando iniziative più folli, le idee più sorprendente.

Questo ricorda molto il “be foolish” di Steve Jobs. Siate un po’ pazzi e rischiate pure per risolvere i problemi. Non è tanto chiaro dalla lettura se il “think green” debba essere prima o dopo il “be foolish”, né è chiaro se servirà e chi sarà un controllore di questi illuminati, ma il messaggio è evidente oltre che affascinante: secondo Bruckner dovremmo trasformare la scarsità di risorse in abbondanza di invenzioni. Potremmo solo così essere all’alba di un rinnovamento senza precedenti, dove troveranno spazio pionieri e esploratori. L’autore analizza una serie di opinioni che spaziano su tutti i fronti dell’ecologia, ma condanna implacabilmente le posizioni ortodosse di Evo Morales e dell’ultimatum di Al Gore, personaggi che non esita a definire guastafeste travestiti da indovini. Probabilmente, vista la citazione di Luca, accetterebbe più volentieri i principi dell’enciclica sull’ecologia di Giovanni Paolo II, in cui il pontefice che amava la natura avverte l’uomo, preso dal desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, che consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. L’attenzione che torna sull’uomo, dunque.
Il presupposto dell’autore è fondamentalmente quello di condanna al catastrofismo generalizzato, un catastrofismo che comunque riconosce insito nella cultura umana, c’era già nel “1000 non più di 1000” di 11 secoli fa e lo abbiamo attualizzato nella quasi-bufala del millennium bug che alla fine del 1999 immaginava in tilt il pianeta.
Ho letto con curiosità e interesse i quadri tra i capitoli. Il primo è dedicato all’auto e si intitola “Fine della libido?”. Pone la questione su come siamo riusciti a togliere importanza ai veicoli, ma non per l’ingombro delle sontuose cabrio e per la sete dei luccicanti suv, ma solo perché nella scala di importanza le quattro ruote sono passate in secondo piano rispetto a telefonini, palmari e tutti quei gioielli della tecnologia di cui ora ci piace dare sfoggio.
Ricapitolando: testo ricco, opinioni forti e abbondanza di citazioni che possono dare comunque al lettore una visione laica sulla scelta della parte su cui schierarsi. Una sola nota: trovo abbastanza difficile da digerire il prezzo, nell’era del libero scambio delle informazioni, 22€ forse sono davvero un po’  troppe per approfondire una pur rispettabile opinione sull’ecologismo.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

La luna privata di Leonid

Leonid Tishkov è un dottore appassionato di arte che a un certo punto decide di farsi un giro ritraendo un disco luminoso con le sembianze della luna.

Ne nasce il progetto Private Moon e il risultato è sospeso tra i sogni del Piccolo Principe e un immaginario surreale. “Non vorrai mica la luna?” si chiedeva un tempo a chi domandava l’impossibile: Leonid non solo l’ha voluta, ma l’ha anche portata dove più gli è piaciuto valorizzando paesaggi d’incanto.

Passavamo, ancora giovani, sotto gli alberi alti e il vago sussurro della foresta. E le radure, improvvisamente apparse nella casualità del sentiero, il chiarore della luna le trasformava in laghi, le cui rive, intricate di rami, erano più notte della notte stessa. La brezza vaga dei grandi boschi faceva sentire il suo respiro fra gli alberi. Parlavamo delle cose impossibili; e le nostre voci erano parte della notte, del chiarore lunare e della foresta. Le sentivamo come se fossero di altri.
Il libro dell’inquietudine, Fernando Pessoa)