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Le rondini che non fanno più primavera

C’è Rondini di Lucio Dalla che si apre con il loro canto e ti immerge nel cuore della nostra Italia paesana. Ti vien da alzare la testa mentre le senti garrire, per scoprire che sotto il cornicione c’è uno dei loro nidi. Che però, da qualche tempo non sono più così frequenti.A dispetto del calendario, rondini se ne vedono sempre meno.

È vero che una rondine sola non ha mai fatto primavera, ma uno studio condotto dall’Università di Milano Bicocca e dal Parco Adda Sud ha dato la sua interpretazione. Dai dati emersi in 16 anni di ricerca, nella popolazione di Hirundo Rustica – nome scientifico del volatile di inizio primavera – i nidi hanno subito un calo del 70%. Anche la media Europea è generalmente in calo, ma con diminuzioni ben meno drastiche. Il perché occuparcene nelle parole del presidente del Parco Silverio Gori.

Le rondini rappresentano un pezzo di storia dei nostri territori perché da sempre vivono in simbiosi con le stalle e gli allevamenti della pianura padana. Un legame forte anche in un territorio come quello del Parco Adda Sud che è per quasi il 90% è agricolo. Inoltre sono formidabili nemiche di insetti molesti e zanzare. Aiutare le rondini significa aiutare un po’ anche noi stessi

Il Parco ha pubblicato un libro che comprende anche un piccolo prontuario di pronto soccorso per rondini. Del resto, il loro viaggio non è mai stato facile, volano arrivando a percorrere fino a 300 km in un giorno e solo il 35% riesce a compiere il giro completo. Alcuni esemplari sono stati dotati di gps per seguire le rotte e cercare di capire meglio le ragioni del calo. La più plausibile non è tanto dovuta all’inquinamento quanto alla chiusura delle stalle e alla diffusione delle monocolture, con la relativa scomparsa di varietà biologica e delle divisioni di filari e siepi che un tempo era frequente.

Tenuto conto che le direttive su allevamenti e colture sono di emanazione europea, stai a vedere che il volatile associato dalla tradizione al giorno di san Benedetto – 21 marzo, inizio primavera – trova proprio nell’Europa, di cui lo stesso santo è il patrono, la causa della sua decrescita. Anche ai santi ora tocca il conflitto di interessi. Segno dei tempi.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Il ritorno alla campagna, come lo vedi?

Negli Usa c’è una rivista che sta riscuotendo un successo inaspettato. Non parla di smartphone, non fa gossip, non pretende di vendere felicità in pacchetti simil-zen. Racconta piuttosto del ritorno alla campagna e si rivolge a quelli che avvertono il richiamo della terra senza l’angolazione degli agriturismi visti da bordo piscina o le vigne con cantina disegnata dall’archistar di turno.

La rivista, che è anche un sito, punta anche all’home-farming rivelando le soddisfazioni del farsi (e coltivarsi) le cose da soli. Poi c’è chi esprime una scelta ancora più radicale e all’opzione del ritorno alla campagna e all’autoproduzione aggiunge l’impegno di farne una professione. Questi sono, secondo me, un po’ degli eroi. Ne ha descritti alcuni Alessandro Cannavò in un suo pezzo. La lucidità del giornalista, che è anche un camminatore e un amante della natura, non nasconde che per scegliere la campagna a 360° devi farti un c… così. Perdonate la forza del termine, ma un conto è fare un aperitivo green sull’aia al tramonto. Altra cosa è alzarsi a mungere prima dell’alba, scrutare il cielo per la pioggia, che non sia troppa o troppo poca, spalare letame e scommettere che il raccolto andrà bene.

Solo se avanza tempo, c’è l’opzione di unire l’utile al dilettevole e organizzare giri a dorso di mulo per far scoprire il proprio territorio a chi ne è attratto. È il caso di Roberta Ferraris. Ci ha scritto un libro e ne trovate alcuni passaggi in rete. Ha uno stile che smorza subito le illusioni pur fornendo una lista di luoghi che non aspettano altro che essere ripopolati. Ne cito alcuni dalle sue pagine, casomai voleste covare l’idea.

Carta geografica alla mano, ecco le nuove frontiere da ripopolare. Tutto il crinale dell’Appennino settentrionale, con punte estreme di abbandono nell’area nota come “Quattro Province”, dove si incontrano le province di Genova, Alessandria, Pavia, Piacenza. L’entroterra montano delle province di Savona e Imperia. Le valli di Cuneo e di Torino. L’alta Langa. Vaste zone della val d’Ossola e della Valsesia. Le Alpi Orobie in Lombardia, tra la Valtellina, Bergamo e Brescia. L’alta Carnia, le Dolomiti bellunesi e vaste zone delle province di Pordenone e Belluno. Sorprendentemente, buona parte dei comuni rivieraschi lungo l’asta fluviale del Po, e soprattutto nelle province di Rovigo e Ferrara. Le zone interne dell’Appennino tosco-emilianoromagnolo, inclusi i comuni interni di Lunigiana e Garfagnana sulle Alpi Apuane. Molti comuni appenninici delle Marche, dell’Umbria, del Lazio, dell’Abruzzo. Tutto l’Appennino meridionale. Le aree interne montane di Sicilia e Sardegna.

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Nessun incanto nelle sue parole. Semmai accenna la riscoperta di certi valori pur smorzando le visioni idilliache. Chiarisce che un vegano non può essere un montanaro, ma un attimo dopo afferma che nelle Langhe lei sceglie di usare gli asini per dissodare. Ma nel 2015 non sarebbe meglio un trattore? No, comprime troppo il terreno. Certe scelte sono pura filosofia. A chi crede che i pionieri sono degli illusi, rispondo che dovrebbero conoscere Roberta. Di illusi così, ne ha tanto bisogno il mondo.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Microdizionario dei gesti italiani

E’ on line un microdizionario della gestualità italiana. In due minuti e mezzo i segni del linguaggio universale italiano (universale = ogni abitante del Bel Paese, me compreso, si aspetta sia compreso dal resto del pianeta) sono illustrati dai protagonisti delle campagne di Dolce e Gabbana. Lo ammetto… non mi sarei mai aspettato di dire a loro due: «grazie, divertente». La lezione di oggi che mi ripeto è “mai dare nulla per scontato”.

E’ solo morto di stenti

Questa  foto è la prova tangibile che i cambiamenti climatici uccidono, colpendo prima i più indifesi. A detta dei ricercatori quest’orso non era né vecchio né malato. E’ “solo” morto di stenti perché il suo cibo aveva cambiato strada a seguito del mutamento di temperatura nell’artico.

Personalmente sottoscrivo la campagna, perché possiamo fare qualcosa, a partire dal limitare il nostro impatto sull’ambiente. L’errore più grande è credere che non basterà mai solo il nostro piccolo gesto, perché anche il più lungo dei cammini inizia dal primo passo. Butta una lattina nell’alluminio, non comprare un nuovo jeans se non se hai davvero bisogno, usa una volta in più la bici o il treno. Se hai letto fino a qui, so che insieme ce la possiamo fare.