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è in irlanda Il titanic che possiamo vedere oggi

Titanic Experience a Cobh, il pontile di
Titanic Experience a Cobh, il pontile di imbarco

Una notte di 109 anni fa, al largo delle coste canadesi si inabissava il Titanic. Gli appassionati dell’argomento sanno che esistono due modi per rendersi conto, oggi e dal vero, di cosa fosse realmente il vascello protagonista del naufragio più famoso della storia.

Se siete facoltosi o fanatici al punto di sborsare centomila euro, potete infilarvi in un sommergibile tascabile per raggiungere l’abisso dove giace il relitto. 

Era una nave dove per viaggiare sul ponte di prima classe serviva essere facoltosi, ma pare uno scherzo del destino che bisogna essere almeno altrettanto ricchi anche per visitarla da affondata. Per quanto possa essere un’avventura, non è il genere di esperienza che comunque permette di capire di fronte a cosa ci si trovi. A causa del buio dei quattro chilometri di profondità e dell’opacità dell’acqua, non potreste che godervela un pezzetto alla volta. Per non parlare del pessimo stato di conservazione che confonde molte parti. 

Diverso è il caso se invece andate in Irlanda, a Belfast dove fu costruito, o a Cobh dove fece l’ultima tappa prima della traversata fatale. Il Titanic Belfast è una costruzione suggestiva per le quattro prue che la modellano. Ospita la più completa esposizione dedicata al transatlantico, ma ancora non racconta nulla di nuovo su questa nave in merito alla quale è stato detto e scritto quasi tutto, comprese molte panzane.

Titanic
Titanic Belfast

Per rendervi conto davvero di quanto fosse grande, dovete aspettare la sera e guardare i vicini scali dove fu costruito con le sue due gemelle, Olimpic e Britannic. Con il buio, proprio a fianco del Titanic Belfast, una fila di led ricrea le sagome di questi giganti del mare, per la loro lunghezza in grado di competere con le navi da crociera di oggi. Pur molto diversi per altezza e numero di ponti, un’idea ancora più precisa la trasmette il bacino di carenaggio che ospitò gli scafi in via di finitura, a poche centinaia di metri di distanza dal museo.

Sempre a Belfast, potete anche imbarcarvi sul Nomadic, il tender che aveva il compito di trasportare passeggeri e bagagli dal porto di Cherbourg al Titanic durante il suo scalo francese.

Sulla costa meridionale dell’Irlanda si trova Cobh, un tempo nota come Queenstown. Questo è il porto dal quale si imbarcarono gli ultimi passeggeri. La Titanic Experience è ospitata nell’edificio della stazione marittima dove transitarono gli sfortunati viaggiatori. Al suo interno sono proposti gli interni delle cabine della nave e un filmato attendibile su come debba essere apparso l’affondamento agli occupanti delle scialuppe. La parte interattiva è ben fatta e compensa la scarsità di molti cimeli originali, anche se il cimelio principale è l’edificio in cui ci si trova.

Titanic Experience a Cobh, una delle
Titanic Experience a Cobh, una delle cabine

Pezzi interessanti si trovano invece al Cobh Heritage Center, ambientato sotto le volte della vecchia stazione ferroviaria dove terminarono il loro viaggio in treno i milioni di irlandesi emigrati oltreoceano. All’ingresso, ogni biglietto è abbinato al nome di uno dei passeggeri e lungo la visita si scopre quale sia stata la sua sorte nella notte della collisione con l’iceberg che inghiottì 1503 persone.

Una foto sfata la leggenda che il Titanic fosse talmente grande da non riuscire a entrare nel porto. L’immagine ritrae il vascello solitario al largo dell’imbocco della baia, dove aveva calato le ancore in attesa di essere affiancato dal tender che trasportava persone, merci e posta. Il Titanic avrebbe potuto tranquillamente approdare, ma, per la movimentazione che richiedeva, era molto più semplice ed economico mantenerlo fuori dalla rada e farlo affiancare da un più maneggevole tender. Sola, sul filo dell’orizzonte, la grande nave sembra consapevole del suo destino.

Ho molto apprezzato che gli irlandesi, popolo di migranti come noi italiani, abbiano posto all’ingresso del museo dei computer attraverso i quali si può accedere ai data base con i nomi e i dati anagrafici di chi ha tentato la fortuna attraversando il mare. Ho trovato anche un mio omonimo, proveniente come me dalla Brianza. La Memoria è un esercizio sempre molto utile per capire e comprendere che la storia è ciclica e che un tempo toccò a noi italiani quello che oggi ci disturba veder accadere nel Mediterraneo.

Titanic. Il bacino di carenaggio a

Gli Italiani sul Titanic

Titolo: Gli italiani del Titanic
Produzione: Cinehollywood per History Channel 2012
Regia: Valerio Scheggia
Autore: Ezio Savino, Annalisa Reggi, Stefano Paolo Giussani
Durata: 50′
Location: Milano, Belfast – Eire

Cosa non sappiamo ancora della tragedia del Titanic, che il 14 aprile 1912 naufragò dopo l’impatto con un iceberg causando oltre 1500 morti? Poco o nulla, si direbbe, specie dopo che nel 1997 James Cameron ne ha realizzato un kolossal cinematografico capace di battere tutti i record precedenti in fatto di incassi.
E invece qualcosa da scoprire c’è ancora, e ce lo racconta il documentario di Valerio Scheggia “Gli Italiani sul Titanic” prodotto da Cinehollywood per Fox International Channels Italy e trasmesso  da History Channel.
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Eternit: l’ecologia del camaleonte

La brutta storia dell’Eternit sembra essere finita nel nulla. La sentenza di prescrizione vanifica la protesta di quanti sono rimasti a piangere le vittime di questo materiale che aggiunge alla morte un senso di incognito legato alla letalità, che può manifestarsi anche dopo 30 anni dall’aver respirato quella sostanza che nessuno ci aveva detto cosa provocava. Non stia tranquillo chi non ha lavorato nella fabbrica della morte. Basta un singolo frammento ad ammazzarti. Significa, ad esempio, che io, mio fratello e tutti i nostri compagni che hanno frequentato il liceo di Monza dove il soffitto era in formelle di eternit siamo potenziali morti per amianto.

Dall’altra parte di tutto questo casino c’è un tranquillo signore svizzero che dal suo buen ritiro dorato dichiara di aver sposato la causa dell’ecologia e avoca a sé il merito di aver capito in tempo i rischi dell’eternit . Peccato che Stephan Schmidheiny è in realtà il signor eternit in persona, essendo stato il vertice proprietario del colosso industriale che gestiva lo stabilimento di Casale Monferrato. La verità è che all’epoca sembrava di aver trovato il materiale perfetto, con quel nome che grondava infallibilità e durevolezza, più o meno come il Titanic. Le vittime che la vana gloria dei mari fece nel colpo di una notte, il materiale in questione le ha moltiplicate negli anni in cui fu celebrato come l’uovo di colombo non solo dell’edilizia ma anche del design. Nel museo Toni Areal di Zurigo, dedicato alla creatività elvetica, c’è perfino un angolo a lui dedicato, senza una mascherina o un solo cenno alla pericolosità di quel che si sta osservando.

Tra le tante posizioni lette in questi giorni ho apprezzato quella di Beppe Severgnini che dalle pagine del Corriere spiega perché siamo al caso di “innocenti per debolezza”. Il suo è un incipit che andrebbe scolpito davanti a qualche tribunale e a molte aziende, a partire da quelle finite su tutti i giornali.

Dopo ThyssenKrupp, Eternit. Una coincidenza che sa di beffa e provoca frustrazione. Nessuno chiede colpevoli per forza; ma neppure innocenti per debolezza. Debolezza delle norme, delle procedure, di chi deve applicarle. Umiliante: non c’è altro aggettivo per descrivere quant’è accaduto.

Con camaleontica sfrontatezza, Schmidheiny chiede ora protezione allo stato italiano per non essere più coinvolto in quelle che lui stesso definisce “processi ingiustificati”. Esca dal suo rifugio e venga a farsi un giro a Casale, Stephen. Ne abbiamo abbastanza di casi in cui l’industriale di turno rinnega il lavoro dei suoi sottoposti che han fatto disastri con persone e ambiente. Se la morte di un uomo è una tragedia, una sciagura in un antro polveroso, mille morti non sono una statistica asettica solo perché monitorate da un tabulato su una scrivania luccicante. In Italia, come nel resto del mondo, le tragedie vanno punite, non prescritte.

Una tassa sul carbone per far girare le pale

La fondazione Leonardo Di Caprio ha finanziato un film di 8 minuti sulla Carbon Tax con la voce dell’attore di Titanic. Dandone notizia, l’Huffington Post americano rimarca il fatto che una tassa sui combustibili fossili potrebbe incentivare l’utilizzo delle risorse rinnovabili, a tutto vantaggio della riduzione di emissioni e danni che le continue estrazioni e il fracking stanno creando.

Il ragionamento funziona. Però già immagino le polemiche in Italia: le pale eoliche fanno schifo e i campi di pannelli solari sono un pugno in un occhio. Nel ginepraio delle opinioni ecologiste o pseudotali si condannano pale e pannelli salvo poi lamentarsi delle emissioni delle ciminiere o dell’impatto delle strutture idroelettriche. Ricordo ancora una frase di un valligiano che si definiva verde e commentava l’installazione della prima pala eolica in Valtellina: «Ci hanno rubato l’acqua e ora ci rubano anche il vento». No comment.

Vediamola in un altro modo. Ci sono aree sottosviluppate e a scarsa vocazione turistica dove l’eolico non sarebbe affatto devastante ma aggiungerebbe risorse e posti di lavoro. Nella stessa misura abbiamo chilometri quadrati di tetti di capannoni e condomini per i quali non sarebbe certo un problema essere rivestiti di celle solari. Forse è sensato imboccare questa strada magari utilizzando i fondi di una Carbon Tax. Continuiamo a digerire le costruzioni che hanno imbrattato la nostra Italia dagli anni ’60 al 2000 senza che nessuno proponga di farle saltare e siamo qui a dire le energie rinnovabili (i cui generatori sono peraltro smontabili) rappresentano un problema?




Cosa ricorderemo della Costa Concordia?

Ok, Schettino e la vergogna di parlare la sua stessa lingua. Poi?

Di fronte alle immagini del recupero non ho potuto che elogiare la professionalità della squadra, però confesso che tenevo tutte le dita incrociate. Nel mio post precedente ero cosciente della professionalità di chi era coinvolto (cito dal pezzo: “fanno cose straordinarie, dico davvero”), auspicavo la bontà del manufatto (“spot favoloso per la Fincantieri che l’ha costruita”) e dichiaravo il risultato che tutti speravamo (“Per il bene della natura isolana, spero che lo sfidante recuperatore vinca”). Ora il risultato del lavoro è lì da vedere. Ma non è finita qui.

Senza disfattismi o minimizzare, era e rimane comunque lecito porsi delle domande. È catastrofismo? No, realtà. Una necessità umana quella di puntare al meglio (cito uno dei miei critici, che ringrazio: “Operazione recupero effettuata”) rimanendo però pronti anche al peggio, perché alla Natura le stiamo combinando sempre più grosse e queste operazioni sono un esempio di come potremmo (dovremmo) arginare lo scempio che qui, per bravura (lo dico ora ora che la vedo facendo i complimenti al lavoro di squadra) e fortuna non si è manifestato.

Mi rimane un dubbio sul fatto del grattacielo che hanno raddrizzato al Giglio: lì parlano i dati. Ha davvero senso costruire queste città galleggianti quando la loro unica ragione di esistere è rispettare le economie di scala delle compagnie di crociera? Ho ben impresse le immagini di questi colossi galleggianti con gli scatti di Gianni Berengo Gardin. Non essendo un commissario tecnico, un esperto di marketing, o un allenatore di calcio (le categorie in cui molti italiani si riconoscono, ma io no perché farei solo casini) lascio la risposta al buon senso.

Prima o poi dovremo responsabilizzarci sul fatto che le operazioni davvero di successo sono quelle che il danno lo prevengono anziché ripararlo. E che, soprattutto, non tutto si può riparare e risarcire, perché non siamo (ancora) in grado di bere o mangiare i soldi.

La lattina Concordia sullo scoglio Giglio: il recupero spiegato a mia mamma

Quando vai in canoa, se colpisci un masso e la corrente ti spinge contro la roccia mantenendoti poi nella posizione, per quanto robusta sia la canoa, lo scoglio sará comunque più rigido e in grado di provocare l’incravattamento dell’imbarcazione. Definizione di “incravattamento”: la carena sollecitata dalla spinta dell’acqua prende la forma del masso quasi avvolgendolo come una cravatta su un collo. Facendo le dovute proporzioni, posso sbagliarmi ma ho la sensazione che tra poche ore potremmo avere la dimostrazione che la spinta di un anno e mezzo di onde ha incravattato la canoa Costa Concordia allo scoglio Giglio. Cosa cambia se è incravattata o no? Semplice: potrebbe rompersi.

Il bell’articolo dell’HuffingtonPost ci fornisce con una documentaristica ricchezza di particolari tutte le forze in campo, omettendo ahimé che la nostra canoa è due volte e un pezzo il grattacielo della Pirelli di Milano, o il cupolone di San Pietro, se preferite.

Grattacielo, cupolone e Concordia, però, non sono di un unico pezzo, mentre lo scoglio Giglio sí. Lo dimostra la facilità con cui si è aperta la canoa mentre Schettino giocava alla Love Boat. Come paventato da chi è molto più tecnico di me, vedo l’operazione rischiosa e sempre di più come una sfida. Effetto possibile: far aprire lo scafo come fosse una lattina e rovesciare il contenuto di un grosso supermercato per 5000 persone sulla costa del Giglio. Morale: un disastro per il Parco dell’Arcipelago Toscano. Soluzione di emergenza ipotizzata: mettere una barriera galleggiante in superficie. Come dire: faccio l’amore e metto il profilattico, ma solo nella parte alta del mio membro, sperando che non scenda nulla. Non son sicuro sia la soluzione migliore.

All’indomani della notizia della decisione di recuperare lo scafo affidandosi ai superuomini di Micoperi (fanno cose straordinarie, dico davvero, ma questa non era mai stata tentata), avevo proposto a Costa un documentario sull’operazione. Pur gentile, la risposta fu “no”. “Meno se ne parla e meglio é, tanto più se il progettato recupero sarà veloce e indolore” sottintendeva il comprensibilissimo diniego.

Magari la Concordia sarà drittissima, con uno spot favoloso per la Fincantieri che l’ha costruita. Di fatto se ne sta parlando in tutto il mondo e stiamo per scoprire se il canoista Schettino (sapete che è famoso anche all’estero per la sua brillante manovra proprio nel centenario del Titanic?)  passerà alla storia anche per l’incravattamento più ingombrante della navigazione.

Per il bene della natura isolana, spero che lo sfidante recuperatore vinca, ma non dimentichi che cinque secoli fa, un tale Leonardo da Vinci, raccomandava, quando si parla di mare, di anteporre sempre l’esperienza alla scienza delle teorie. Non essendoci esperienza in materia, non ci resta davvero che sperare.

Questo articolo è pubblicato anche sull’HuffingtonPost.

Una realtà diversa all’aria aperta, basta un telefonino

Francois Dourlen è un fotografo. Come molti ha iniziato a maneggiare lo smartphone allontanandosi dagli schemi, ne è uscito un percorso originale che ognuno di noi può divertirsi a imboccare scatenando la fantasia. Un treno giocattolo arriva in stazione, l’occhio del Signore degli anelli brilla su un vecchio faro, una nave fantasma attracca in porto, Di Caprio e la Winslet portano il Titanic sulla vostra spiaggia preferita. 

Ispiratevi con una  parte della collezione intanto, poi provateci anche voi, perfino la metropolitana potrebbe aprire porti inimmaginabili.

Gli italiani del Titanic→

gli-italiani-del-titanicTitanic: il più famoso disastro navale della storia si ripropone in tutta la sua drammaticità in occasione del centenario dellaffondamento. Velocità, bellezza, lusso, dimensioni, inaffondabilità tutto colato a picco in poco più di due ore per i segnali di allerta ignorati. Si pensa sia già stato scritto tutto o quasi sul transatlantico dei record, ma molto resta ancora da scoprire e da raccontare. Dallo stesso team autoriale che ha ispirato il documentario Gli italiani del Titanic di History Channel, in un instant book le storie dei nostri connazionali che si trovavano a bordo la fatidica notte del 14 Aprile 1912. Le vicende personali, le famiglie e le ambizioni dei passeggeri in seconda e terza classe in cerca del sogno americano, il maitre del Ristorante à la Carte con i suoi impeccabili camerieri imbarcati grazie a uno stratagemma, fino al personaggio che potrebbe aver ispirato James Cameron nel colossal cinematografico.

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