Lombardia bear-friendly

Daniza e le avventure degli orsi sulle Alpi. Location: settore alpino centrale. Riassunto delle puntate precedenti. 



I grigionesi si sentono minacciati dagli orsi al punto da aspettarli fuori dalla tana per seccarli alla fine del letargo
I trentini ne fanno un problema politico del tipo “per accontentare gli elettori, io signorotto locale decido di dimezzare la popolazione plantigrada”. Il valore è probabilmente stato determinato in preda agli effetti allucinogeni dei funghi trovati dai cercatori che si appostano a sbirciare la cucciolata con mamma orsa in circolazione. 

Stai a vedere che, alla fine, la più bear-friendly è l’industrializzata Lombardia, quella che di solito fa notizia per il blocco del traffico o per gli inceneritori. L’assessore all’ambiente Claudia Maria Terzi, 39 enne bergamasca, afferma di voler rispettare i principi del progetto Europeo Life Arctos e dunque tutelare la popolazione plantigrada rimborsando i danni provocati dalla stessa e incoraggiando l’installazione dei recinti elettrificati per proteggere il bestiame. Non solo.

Non cacceremo via l’orso, piuttosto vorremmo che sulle nostre montagne avesse un angolo di paradiso dove vivere – dichiara al Corriere della Sera – Ecco perché continueremo a tutelarlo come stiamo facendo dal 1999, quando abbiamo assistito al suo ritorno nelle provincie di Bergamo, Brescia e Sondrio. Perché una convivenza con l’uomo è possibile.


C’è dunque un nesso tra industrializzazione e attenzione alle tematiche ambientali? Pare di sì. Cioè chi è più coinvolto nei settori avanzati e si è misurato pesantemente coi rischi ambientali tende a preservare la naturalità meglio di chi si spaccia per naturale e poi non esita a sparare o sbattere gli animali nei recinti. Penso che tutti gli appassionati di natura se ne dovrebbero ricordare la prossima volta che decidono dove trascorrere le vacanze alpine, magari tenendo presente che la Lombardia conta 24 parchi regionali, oltre al Parco Nazionale dello Stelvio. #iostocondaniza e il documentario lo dimostra.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Una tassa sul carbone per far girare le pale

La fondazione Leonardo Di Caprio ha finanziato un film di 8 minuti sulla Carbon Tax con la voce dell’attore di Titanic. Dandone notizia, l’Huffington Post americano rimarca il fatto che una tassa sui combustibili fossili potrebbe incentivare l’utilizzo delle risorse rinnovabili, a tutto vantaggio della riduzione di emissioni e danni che le continue estrazioni e il fracking stanno creando.

Il ragionamento funziona. Però già immagino le polemiche in Italia: le pale eoliche fanno schifo e i campi di pannelli solari sono un pugno in un occhio. Nel ginepraio delle opinioni ecologiste o pseudotali si condannano pale e pannelli salvo poi lamentarsi delle emissioni delle ciminiere o dell’impatto delle strutture idroelettriche. Ricordo ancora una frase di un valligiano che si definiva verde e commentava l’installazione della prima pala eolica in Valtellina: «Ci hanno rubato l’acqua e ora ci rubano anche il vento». No comment.

Vediamola in un altro modo. Ci sono aree sottosviluppate e a scarsa vocazione turistica dove l’eolico non sarebbe affatto devastante ma aggiungerebbe risorse e posti di lavoro. Nella stessa misura abbiamo chilometri quadrati di tetti di capannoni e condomini per i quali non sarebbe certo un problema essere rivestiti di celle solari. Forse è sensato imboccare questa strada magari utilizzando i fondi di una Carbon Tax. Continuiamo a digerire le costruzioni che hanno imbrattato la nostra Italia dagli anni ’60 al 2000 senza che nessuno proponga di farle saltare e siamo qui a dire le energie rinnovabili (i cui generatori sono peraltro smontabili) rappresentano un problema?




L’ultimo pascolo dell’estate

Si avvicinano le giornate cristalline di settembre, quelle in cui in uno stesso panorama si vedono l’infuocata dei boschi e le montagne ingiallite a fare da pilastri a cieli cobalto. Speriamo che l’autunno sia un po’ meno originale della stagione che lo ha preceduto. Rimane comunque un momento di riflessione.

Vi svelo un paio di posti a me molto cari, a ridosso dei 4000 alpini ma raggiungibili con facilità. Ci vado per ricaricare l’anima e il corpo, a salutare i pascoli prima del riposo invernale. In Valle d’Aosta, tutti conoscono la maestosità del Monte Bianco e la sagoma svettante del Cervino. Di fronte a loro ci si può arrivare con sentieri e carrarecce, senza dover fare code, timbrare cartellini o sopportare suoni che non siano naturali.

Un’angolazione originale della piramide granitica più famosa del mondo è quella che si gode da Gillerey, frazione di Torgnon. Il comune è uno di quelli della Val d’Aosta dove non ci passi per caso, ci devi andare apposta. Lasciando la celebre strada che porta alla ancor più celebre Cervinia, il paese è adagiato sulla sinistra. Chi ama i luoghi preservati benedirà il fatto che Torgnon non è affatto celebre, nonostante i vicini ingombranti. E’ aggraziato come molti paesi da queste parti, ma qui ci sono almeno un paio di motivi in più per venirci. Il primo è il borgo di Triatel, del quale la parte più antica è stata recuperata integralmente e mostra come si viveva sulle Alpi fino all’inizio del ‘900. 

Una grande lezione per chi ama la montagna, un ottimo spunto per tutti gli altri che possono comprendere come l’abitare le Alpi non sia affatto scontato. Il secondo motivo è la straordinaria veduta su Cervino e Plateau Rosa che si gode da Gillerey, a monte dell’abitato, il poggio è caratterizzato da una chiesetta esagonale con dodici rocce attorno a rappresentare gli apostoli. La strada che ci arriva fa parte della Balconata del Cervino e il tempietto appare all’improvviso come se qualcuno ce lo avesse appena appoggiato. Lo sterrato che pennella le foreste di Torgnon attraversando conche e crinali può essere percorso a piedi, in bici e perfino con gli sci  da sciescursionismo in inverno. 

Cambio scena, ci si avvicina al ghiacciaio quasi a sentirne il freddo. Sul versante opposto della Vallée, superata Aosta e quasi al cospetto del tetto d’Europa, si punta a La Thuile. La stazione invernale è molto conosciuta, anche per la condivisione del comprensorio sciistico con la francese La Rosière. Meno nota, invece è la parte escursionistica. Il tracciato delle cascate del Rutor è tra i più affascinanti che si possano percorrere. Raggiunta la terza cascata, l’invito è a proseguire per risalire l’ultimo crinale a guadagnare la quota del rifugio Deffeyes. Qui niente rumori e zero inquinamento luminoso. L’edificio fronteggia il circo glaciale del Rutor con un’angolazione da spettacolo perfetto. Il ghiacciaio si è molto ritirato dall’800, quando una volta all’anno provocava disastri appena l’eccessivo scioglimento delle nevi faceva saltare il tappo di detriti e provocava un’improvvisa alluvione a valle. 

Oggi il corso del torrente è una lezione vivente dell’orografia alpina, con un ponte nuovo di zecca sospeso sul salto della terza cascata. Il Sentiero del Centocinquantenario che si imbocca dalla parte opposta del ponte è una via alternativa alla discesa. In tutto questo, il Monte Bianco è lì, a guardare ogni passo come il gigante sonnacchioso che possiede la montagna ma non si fa problemi a fartela godere. Generoso lui, come solo la natura sa essere. Due occhi, a volte, non bastano per portare a casa tanta grandezza, ecco perché in montagna serve anche il cuore.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

ET, il contatto entro 20 anni

Il contatto con un extraterrestre potrebbe non essere molto distante. La NASA sostiene che entro 20 anni comunicheremo con una forma di vita proveniente da un altro pianeta collocato probabilmente oltre i confini della galassia. 
L’argomento è al centro di un volume di circa 300 pagine disponibile gratuitamente in e-book sul sito dell’Agenzia Spaziale Americana. Archeologia, antropologia e comunicazione interstellare valuta i problemi che potranno sorgere nella comunicazione, fondamentalmente riconducibili alla possibile non comprensione di concetti come bene e male o col fatto che la nostra cultura di carattere monoplanetario potrebbe non essere compatibile con un sistema di conoscenze fondate sulle esperienze di più pianeti radicalmente diversi. 
Sulla terra parliamo 6909 linguaggi diversi distribuiti in 204 stati, saremo pronti?


La tua femmina, pelosa e incatenata.

Sesso da animali? Chi si impressiona facilmente non inizi neppure a leggere.

L’operaio è tornato stanco dal suo turno nella miniera. Appena il tempo di una lavata nelle baracche anonime e poi una corsa alla parte estrema dell’abitato, quella a ridosso della foresta. Corre perché deve arrivare prima degli altri. L’edificio dove punta è in fondo alla via, rami e muri si confondono laggiù. Nella lurida catapecchia le luci sono soffuse, quasi l’odore le coprisse. La femmina è stata appena depilata, il rossetto è fresco e lui è riuscito ad essere il primo della serata. Così, almeno, gli hanno garantito gli uomini al piano di sotto, quelli che hanno sedato da poco l’animale. Il giovane esemplare è pronto per soddisfare le sue voglie, con le cinghie che legano i polsi al letto…

Non cercate tra i romanzi di Asimov o i racconti di Clark ambientati nelle frontiere lontane del sistema solare. Lo scritto è solo frutto della mia immaginazione dopo aver letto la notizia che nel Borneo è pratica comune usare le femmine di orango per soddisfare le voglie dei maschi. Il fatto sarebbe già di per sé grave se i maschi in oggetto fossero della stessa specie, ma qui parliamo di umani.

I fatti sono stati portati a conoscenza dalla veterinaria Karmele Llano, 27 anni, di Bilbao. Si riferiscono a una femmina di orango che la sua soccorritrice ha chiamato Pony. Pare che autorità compiacenti e individui senza scrupoli abbiano costruito un racket per fare denaro attingendo alla disperazione più nera. Cosa avviene delle femmine di orango quando “non sono più utili” possiamo facilmente immaginarlo.

Perché gli oranghi? – spiega la dottoressa Llano – Perché questo grande mammifero arboreo condivide con l’uomo il 97% del patrimonio genetico. Il suo nome in malese significa popolo della foresta. Oltre che in Thailandia gli orangutan sono importati in altri paesi d’Asia e in particolare a Taiwan dove vengono usati soprattutto come animali da compagnia. Questa è una delle più serie minacce alla loro sopravvivenza alimentando il grande traffico illegale. Un traffico che arriva, malgrado i controlli, fino in Europa al termine di una rotta che passa per il Medio Oriente. Ma il vero grande pericolo per la sopravvivenza degli orangutan è la distruzione delle foreste dove vivono, ora soprattutto a causa dell’avanzare delle piantagioni di Olio di Palma, prodotto usato nel settore alimentare e cosmetico. Piantagioni per creare le quali si uccidono le scimmie e si distrugge la foresta, loro unico habitat.

Il progetto di Karmele è on line. Chi è arrivato a leggere fino qui, e grazie per averlo fatto, può perfino adottare uno degli animali salvati.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Chiamate Darwin, non i carabinieri

Io sto con Daniza, l’orso o mamma orsa, se preferite. Lo premetto e non mi stanco di ribadirlo. Detto questo mi preme chiarire che i politici trentini non sono mai stati pro orsi. Ma non è colpo loro, nel senso che devono seguire le pressioni del loro elettorato che non ha fama di essere ecologista. E’ gente che vive in montagna e non sono da biasimare se vedono orsi, lupi e volpi come come una minaccia per il bestiame e per chi rischia incontri inusuali come possono capitare quando vivi ai margini di un paesino di montagna. Lo scrivo per esperienza, la mia casetta sull’Appennino ligure è l’ultima dell’abitato e quando rientro al buio ogni tanto penso ai rischi.

Ma qui il nocciolo della questione è un altro. Parliamo di intelligenza. Non posso pensare che il cercatore di funghi che sostiene di essersi appostato ad osservare i cuccioli non fosse a conoscenza che qualsiasi animale in libertà tende a difendere la cucciolata. Vogliamo, come è giusto che sia, puntare alla reintroduzione delle specie autoctone di animali che ci siamo giocati nei decenni scorsi? Temo che dobbiamo fare in modo che la loro reintroduzione sia a prova di stupido. In inglese si dice foolproof information e prevede che quando ti inoltri su un sentiero di un parco americano o canadese vieni messo al corrente dei rischi. Evidentemente serve farlo anche in Italia perché un cercatore di funghi, probabilmente sceso da Marte e residente in Trentino solo per caso, non ci arriva e allora scopre a proprie spese che non è sano appostarsi a ridosso di una cucciolata con un genitore attorno. Ma mettiamoci nei panni dell’orsa. Vedo dei bambini che stanno giocando e noto che dei tipi sospetti li stanno fissando oltre la rete del parco: che faccio, non intervengo? Morale: se il cercatore di funghi non ci arriva da solo e gli succede qualcosa, non è un incidente, ma “selezione naturale”. Invonchiamo Darwin, non l’abbattimento dell’orsa. Guardiamoci in faccia signori trentini, i nostri nonni erano saggi e queste cose le sapevano, poi con l’arrivo delle armi hanno agito di impulso, più  per paura del selvaggio che per il pericolo. Siamo a questo punto? I vostri cervelli hanno davvero cent’anni? Preferisco pensare di no. Ben venga dunque la mobilitazione.  #iostocondaniza!

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.


Castelvolturno, vienici a sopravvivere

C’è la Campania di Spaccanapoli, della Costiera, di Capri e di Ischia, dei Giardini della reggia di Caserta e quella cartolina del Vesuvio col pino e il golfo che fa tanto Italia.

Azzerate. Sto per parlarvi di altre cartoline. Mi ci sono imbattuto sfogliando pagine che raccontano di Castel Volturno. Castel Volturno dei negri che chi se ne frega ma fan comodo per raccogliere pomodori. Delle bufale che muoiono nei campi dopo chissà quali stenti e le carcasse stanno lì a marcire. Delle strade che le vedi in foto e in un primo momento pensi “che schifo certi paesi del terzo mondo” salvo poi scoprire che il terzo mondo ce l’hai in casa.
Un gruppo di giovani ha deciso sfrontatamente, e ce ne fossero di questi sfrontati, di raccontare il degrado partendo dagli scorci che un tempo erano quelli della vita ruggente sulla Costa Domiziana. Tra covi di tossici e blitz della procura ne è uscita una serie di cartoline la cui serie è titolata Vieni a sopravvivere da noi. La didascalia sceglietela voi. La mia non sarebbe pubblicabile.
Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.


Hiroshima e l’era del cervello in fumo

Hiroshima e Nagasaki, agosto 1945. Ieri, 69 anni fa, entravamo ufficialmente nell’era della minaccia atomica.

Il professor Noam Chosky del Mit sostiene che se un extraterrestre cercasse di datare la nostra esistenza sul pianeta, userebbe il giorno dello sgancio di Little Boy su Hiroshima come l’anno zero della nostra civiltà, quello in cui l’uomo raggiunse capacità tali da autodistruggersi.
Ne furono necessari due di confetti, perché Fat Man, quello sganciato su Nagasaki a distanza di tre giorni, era leggermente diverso da Little boy e gli illuminati strateghi decisero che non c’era miglior test che un teatro di guerra pieno di civili. La decisione conferma il senso dell’anno zero di Chosky: l’uomo abbandonava il ragionamento e il dialogo per affidarsi alla bomba.