L’invasione di Putin e il pacifismo da rivedere

Mentre le democrazie stanno a discutere, un uomo, che ha accentrato il potere nelle proprie mani sottomettendo di fatto una nazione, invade uno stato confinante adducendo gli interessi di connazionali minacciati. C’è qualcosa che non funziona. Se pensate a Putin, sappiate che la frase calza perfettamente anche al 1939 con Hitler e la sua gita in Polonia.

In altri tempi si recitava «si vis pacem para bellum» («se vuoi la pace, prepara la guerra»). La frase latina, anonima in questa forma, è presente, in modo poco diverso nella formulazione o nella sostanza, in vari autori. Napoleone compreso. Le armi rimangono i mezzi più efficaci per assicurare la pace perché ci dimostrano in grado di difenderci?

Mi riconosco di più in Gino Strada, quando afferma «Io non sono pacifista, sono contro la guerra». La verità è che mentre il tempo è lineare, la storia è ciclica. Perchè? Semplicemente perché l’uomo vive, pensa e agisce in base a precisi meccanismi. La guerra è uno di questi. Sempre meno utilizzata ma pur sempre utilizzata. Studiare la storia aiuta a prevederla senza per questo essere degli indovini. È la storia stessa che ci insegna che, unendoci e dimostrandoci una compatta marea di ribellione, possiamo provare ad affermare il nostro “no”. Putin, uno che arriva dalla scuola del KGB potrà fregarsene, ma solo finché l’onda gli bagnerà la porta di casa. Sua e/o di qualcuno dei suoi sostenitori con portafoglio.

Non si è dittatori a tempo indeterminato, anche se si ha un discreto successo sul piano mediatico, prima o poi la Storia presenta il suo conto. Una piazza colma, un uomo solo davanti a un carro armato, un papa da un ambasciatore possono accelerare il processo.

Achille Lauro e l’orgasmo di Bernini

Achille Lauro a Sanremo ha scatenato i critici dalla tastiera facile, finendo di colpo alla ribalta dei notiziari. Non è una novità per Achille Lauro, visto che successe anche in passato e probabilmente capiterà in futuro, sono colpito dall’ondata di commenti che si è scatenata per aver portato in scena il battesimo.

Credo di potermi esprimere da una posizione interna alla chiesa, affermando che le accuse di oltraggio siano infondate e abbiano gloriosi precedenti. A partire dal Vangelo, che lo stesso Osservatore Romano evidenzia come ben più trasgressivo.

Alle interviste degli esperti per i documentari su Caravaggio e Bernini, raccolsi opinioni forti sul tema della trasgressione di questi artisti che avevano osato. Il pittore lombardo definito maledetto si era servito di donne ritenute peccatrici come modello per raffigurare la Madonna.  L’artista romano che lavorò per otto papi, invece, fece scandalo con la raffigurazione di Santa Teresa definita addirittura un orgasmo di marmo.

L’Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini

Achille Lauro è un artista, un appassionato di citazioni colte e uno che non ha paura a mettersi a nudo. È Caravaggio ed è Bernini.

Non vedo blasfemia nel suo brano Domenica. Vedo semmai una trasgressione della conformità che non mi dispiace. Non mi sono sentito offeso da cristiano, ho visto una rappresentazione del battesimo accompagnato da voci di tutto rispetto che cantavano Alleluia.  A chi fosse stato disturbato dalla mancanza di un officiante ricordo che Giovanni Battista nel Giordano non aveva nessuna investitura ufficiale prima che arrivasse un certo Gesù.

Leggo dell’oltraggio alla religione cristiana. Chi lo scrive dovrebbe precisare che l’offesa è personale, senza coinvolgere tutta la religione. Il problema è semmai nei suoi gusti, rispettabili come quelli di tutti. Con un pianeta che va in rovina e bambini che muoiono assiderati o annegano nei barconi, Dio ha in agenda problemi ben peggiori di Sanremo. Trovo più di cattivo gusto l’esempio di chi sventola il principio della famiglia dimenticando che l’amore non è un concetto zootecnico. Come sono più infastidito dalle Madonne e dai santi inchinati nelle processioni sotto casa dei mafiosi.

Qualcuno ha poi spronato Achille Lauro a prendersela coi musulmani. Se lo avesse fatto, probabilmente lo avrebbero aspettato fuori, ma non i musulmani, quanto i fanatici. Ben ricordando quanta gente è stata bruciata – e cosciente che sarei stato probabilmente tra quelli – sono fiero che la confessione in cui mi riconosco abbia superato da secoli questa fase. E sono anche felice che la mia fede abbia superato la necessità di piangersi addosso e vestire i panni dell’oltraggiata. Dio ci ha creati ragionevoli di fronte alle rappresentazioni, a prescindere che si svolgano in spazi sacri o su palcoscenici profani. Si chiama libertà, di arbitrio e di espressione. E non è affatto scontata in un mondo che ci vuole uniformati. Sta qui la nostra forza.

E ai catto-tormentoni che vedono il diavolo ovunque, perfino nell’arte, chiedo dunque di parlare a titolo personale. Dio vuole per noi il meglio, ci vuole felici. Non si pone limiti e non ci chiede interessi.

Felice è il Lupo di paolo cognetti

Ne Le otto montagne con cui ha vinto lo Strega, ma ancora prima ne Il ragazzo selvatico e ora con La felicità del Lupo, Paolo Cognetti è un amplificatore di suoni, odori, gusti. I suoi personaggi si usmano tra loro per scoprire che sanno “di gennaio e di stufa”. Scrive come se dovesse prepararsi a girare un documentario, rivelando la scuola di cinema frequentata.

Per Paolo Cognetti, una stufa non è una presenza casuale, in un rifugio come in una casa

Ne La felicità del lupo, il suo ultimo lavoro da poco in libreria, c’è una pagina magistrale in cui ci rende i predatori che si affacciano per la prima volta a una valle. Il senso dell’esplorazione di Cognetti emerge netto anche nel documentario Sogni del grande Nord, di cui è protagonista e co-autore.

È il viaggio tra la tomba di Raymond Carver e il bus che fu ultimo rifugio per Chirs Mccandless. Il pick up scorre tra le foreste e i golfi dove l’Oceano Pacifico intaglia Canada e Alaska. L’autobus oggi è volato via, letteralmente. Erano in troppi ad averne fatto una specie di Mecca e molti non erano preparati al deserto boreale. Gente che poi è stato necessario soccorrere.

Paolo e Nicola durante una delle conversazioni verso l’Alaska

Il documentario racconta bene lo scrittore, ma rivela anche gli scrupoli della pianificazione con l’amico Nicola Magrin. Nicola è un illustratore, sua è la copertina de Le otto montagne. Nel documentario è l’alter ego perfetto di Paolo, riuscendo a fissare in un’immagine quello che lo scrittore esprime in parole. È anche grazie alle conversazioni tra i due che capiamo come Cognetti sia ben lontano dalla galassia fricchettona dei brand d’alta quota indossati in città. Del resto non avrebbe scelto di lasciare Milano per andare in montagna, non avrebbe scelto di viverci, non avrebbe ululato di fronte al fuoco come ha fatto in una delle scene più toccanti del film. «A volte perfino uno scrittore non trova le parole per descrivere un momento e in quel momento a me venne da ululare», mi ha confessato.

Nei libri Cognetti racconta le anime che ha incontrato sulle sue (otto) montagne, perché lui è un documentarista e proprio per questo sono convinto che non abbia inventato nessuno dei suoi personaggi. Ha descritto solo incontri reali. Ha trovato spiriti universali e di ognuno ha colto gradazioni dell’anima mundi. Perfino nel lupo.

Gli ho chiesto se crede in Dio. La sua risposta è stata no, quantomeno “no, se la domanda è quella asciutta posta così”. Precisa che, vivendo a stretto contatto con la natura, trova la vita un grande mistero. È l’autore da milioni di copie che si domanda cosa ci faccia essere vivi? «È la cosa più vicina a Dio che io riesco a sentire. Faccio fatica a pensare all’universo, ai pianeti, allo spazio. Per me è una dimensione molto collegata alla vita, all’acqua che scorre, a un bosco che cresce. Sento qualcosa di più alto, di duraturo, quasi di eterno rispetto alla mia esistenza che invece è uno spazio di tempo minuscolo».

Dà anche una sua visione del paradiso. «Sono passati quattro lupi davanti alla fototrappola vicino alla baita. Non hanno paura, ho questa immagine del paradiso terrestre che è in realtà il luogo in cui l’uomo e gli altri esseri viventi convivono in armonia. Per me la felicità spezzata della cacciata dal paradiso è questa: gli animali ci temono perché noi siamo la specie più feroce della storia».

Cognetti crede che la cosa più bella che si inizia ad avvertire stando nella natura è il sentirsi solo un pezzettino di un ciclo. «Capisci che nascita, vita e morte sono continui. Ti capita di trovare un animale morto e poi incontri un cucciolo. Sentiamo una primavera, l’estate, l’autunno, poi arriverà l’inverno e significa che moriremo. E partirà la primavera da qualche altra parte».

A uno dei suoi personaggi fa dire che “qualcosa scompare e qualcos’altro prenderà il suo posto, così va il mondo”. In ogni suo romanzo ci siano un “prima” e un “dopo” molto netti. Lo ammette egli stesso quando afferma che il “dopo” del Cognetti documentarista e del Cognetti scrittore, sarà il Cognetti gestore di rifugio.

Con il successo dello Strega è riuscito a ristrutturare la stalla a fianco alla sua baita. Pannelli solari, impianto geotermico, vetrate ad alta efficienza termica, un edificio in grado di produrre l’energia che gli serve e che farebbe contenta Greta Turnberg, “una vera lupa” secondo Paolo. C’è anche una cucina professionale per i risotti in compagnia, perché il Cognetti del futuro lo spiega il Cognetti del presente citando Thoreau. Nel suo capanno a Walden, l’autore di Vita nei boschi aveva un tavolo con tre sedie. Una era per la solitudine della scrittura, una seconda per l’amicizia, una terza per la socialità. Paolo ha pronte un bel po’ di queste terze sedie.

A chi gli chiede dove andrebbe se non in Val d’Ayas, risponde che in una vita parallela forse farebbe come Pietro de Le otto montagne e volerebbe in Nepal. Però non da solo, «prima in un viaggio non avrei mai fatto mancare un libro, e adesso direi anche un amico. Si cambia. Ci piacerebbe che tutto rimanesse immobile, per esempio pensiamo alla montagna come un luogo che dovrebbe essere sempre fermo, ma il tempo scorre. Vorremmo i posti immutabili come li conserviamo nei nostri ricordi. Questo è qualcosa su cui rifletto anche quando si parla del cambiamento climatico. Certi commenti mi sembrano affermazioni di nostalgia, di quando c’erano i ghiacciai e tanta neve».

Gli capita talvolta di trovare indumenti nelle baite abbandonate e gli vengono in mente i pastori che ci hanno dormito, non si sa quanto tempo fa. Si rammarica che siano una razza in via di estinzione, di conoscerne ormai pochi, convinto che in futuro la montagna sarà sempre più un parco da ammirare.

C’è nostalgia nelle sue parole, da chiedergli dove siano allora le sue radici. «Io le sto mettendo lassù, un po’ a sorpresa perché non sono i luoghi dove sono nato. Milano dovrebbe essere la mia casa, però per qualche strano motivo non sento lì le mie radici.»

Il Cognetti di tutti i giorni si sveglia con i ritmi della natura, con un caffè, prestissimo in estate e un po’ più tardi in inverno. Nelle baite c’è sempre da fare. Il fuoco che le scalda è ciò che le rende vive, ma per lui la montagna significa stare all’aperto, lavorando intorno. Ha piantato degli alberi, ha inciso un corso d’acqua, cammina molto. Rimane in giro ore, tornando a casa nel pomeriggio per dedicarsi alla lettura e alla scrittura fino alla cena. Poi arriva il momento di scendere a vedere qualcuno al bar.

«Stare lassù può essere un’illusione – dice – devi coltivare delle cose tu, dove sei, e quindi inizi a capire che cos’è la felicità dell’albero, quella dello stare fermi, del mettere radici. È lì che si inizia a essere rifugio di se stessi».

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è in irlanda Il titanic che possiamo vedere oggi

Titanic Experience a Cobh, il pontile di
Titanic Experience a Cobh, il pontile di imbarco

Una notte di 109 anni fa, al largo delle coste canadesi si inabissava il Titanic. Gli appassionati dell’argomento sanno che esistono due modi per rendersi conto, oggi e dal vero, di cosa fosse realmente il vascello protagonista del naufragio più famoso della storia.

Se siete facoltosi o fanatici al punto di sborsare centomila euro, potete infilarvi in un sommergibile tascabile per raggiungere l’abisso dove giace il relitto. 

Era una nave dove per viaggiare sul ponte di prima classe serviva essere facoltosi, ma pare uno scherzo del destino che bisogna essere almeno altrettanto ricchi anche per visitarla da affondata. Per quanto possa essere un’avventura, non è il genere di esperienza che comunque permette di capire di fronte a cosa ci si trovi. A causa del buio dei quattro chilometri di profondità e dell’opacità dell’acqua, non potreste che godervela un pezzetto alla volta. Per non parlare del pessimo stato di conservazione che confonde molte parti. 

Diverso è il caso se invece andate in Irlanda, a Belfast dove fu costruito, o a Cobh dove fece l’ultima tappa prima della traversata fatale. Il Titanic Belfast è una costruzione suggestiva per le quattro prue che la modellano. Ospita la più completa esposizione dedicata al transatlantico, ma ancora non racconta nulla di nuovo su questa nave in merito alla quale è stato detto e scritto quasi tutto, comprese molte panzane.

Titanic
Titanic Belfast

Per rendervi conto davvero di quanto fosse grande, dovete aspettare la sera e guardare i vicini scali dove fu costruito con le sue due gemelle, Olimpic e Britannic. Con il buio, proprio a fianco del Titanic Belfast, una fila di led ricrea le sagome di questi giganti del mare, per la loro lunghezza in grado di competere con le navi da crociera di oggi. Pur molto diversi per altezza e numero di ponti, un’idea ancora più precisa la trasmette il bacino di carenaggio che ospitò gli scafi in via di finitura, a poche centinaia di metri di distanza dal museo.

Sempre a Belfast, potete anche imbarcarvi sul Nomadic, il tender che aveva il compito di trasportare passeggeri e bagagli dal porto di Cherbourg al Titanic durante il suo scalo francese.

Sulla costa meridionale dell’Irlanda si trova Cobh, un tempo nota come Queenstown. Questo è il porto dal quale si imbarcarono gli ultimi passeggeri. La Titanic Experience è ospitata nell’edificio della stazione marittima dove transitarono gli sfortunati viaggiatori. Al suo interno sono proposti gli interni delle cabine della nave e un filmato attendibile su come debba essere apparso l’affondamento agli occupanti delle scialuppe. La parte interattiva è ben fatta e compensa la scarsità di molti cimeli originali, anche se il cimelio principale è l’edificio in cui ci si trova.

Titanic Experience a Cobh, una delle
Titanic Experience a Cobh, una delle cabine

Pezzi interessanti si trovano invece al Cobh Heritage Center, ambientato sotto le volte della vecchia stazione ferroviaria dove terminarono il loro viaggio in treno i milioni di irlandesi emigrati oltreoceano. All’ingresso, ogni biglietto è abbinato al nome di uno dei passeggeri e lungo la visita si scopre quale sia stata la sua sorte nella notte della collisione con l’iceberg che inghiottì 1503 persone.

Una foto sfata la leggenda che il Titanic fosse talmente grande da non riuscire a entrare nel porto. L’immagine ritrae il vascello solitario al largo dell’imbocco della baia, dove aveva calato le ancore in attesa di essere affiancato dal tender che trasportava persone, merci e posta. Il Titanic avrebbe potuto tranquillamente approdare, ma, per la movimentazione che richiedeva, era molto più semplice ed economico mantenerlo fuori dalla rada e farlo affiancare da un più maneggevole tender. Sola, sul filo dell’orizzonte, la grande nave sembra consapevole del suo destino.

Ho molto apprezzato che gli irlandesi, popolo di migranti come noi italiani, abbiano posto all’ingresso del museo dei computer attraverso i quali si può accedere ai data base con i nomi e i dati anagrafici di chi ha tentato la fortuna attraversando il mare. Ho trovato anche un mio omonimo, proveniente come me dalla Brianza. La Memoria è un esercizio sempre molto utile per capire e comprendere che la storia è ciclica e che un tempo toccò a noi italiani quello che oggi ci disturba veder accadere nel Mediterraneo.

Titanic. Il bacino di carenaggio a

Il dalai lama e la nostra casa comune

Tra i grandi voti che pronunciano i monaci buddisti si recita “per quanto numerosi siano gli esseri, faccio voto di farli pervenire tutti alla liberazione”. Non solo il genere umano, dunque, ma tutti gli esseri viventi, compresi quelli del regno vegetale, sono degni di rispetto.

Che il nostro pianeta non sia una entità morta lo trasmettono anche i nativi americani per i quali Madre Terra è viva e tutti dipendiamo da lei per l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, il cibo con cui ci nutriamo. Tra le grandi filosofie e le religioni più diffuse ad esse collegate, il buddismo è probabilmente quella più vicina all’idea di Gaia, opposta a quella di certe impostazioni del pensiero occidentale che inquadrano l’uomo “misura di tutte le cose”, come sosteneva Protagora, e gli animali come macchine, con le parole di Cartesio ad affermare che “grazie alla scienza, l’uomo sarà d’ora innanzi il padrone e il possessore dell’universo”. 

Nel libro Amiamo il pianeta. Un appello per salvare la nostra unica casa, il Dalai Lama Gyatso Tensin sintetizza le ragioni perché non possiamo fare a meno di allontanarci da certi pensieri antropocentrici.

«Abbiamo bisogno di una rivoluzione della compassione – dichiara Sua Santità – che dipende dal calore, dalla comprensione della coesione dell’umanità, dalla preoccupazione per il benessere degli altri e dal rispetto per i loro diritti. L’intera famiglia umana deve riunirsi in una comunità sostenibile, globale ed ecologica, che collabora e si prende cura della nostra casa».

Il pensiero buddista, avallato un comitato scientifico internazionale, è presentato in versione video da Feedback Loops, una miniserie di documentari visibili a tutti. All’evento di presentazione, il Dalai Lama era affiancato da Greta Thunberg, mentre i testi originali sono letti da Richard Gere, che da anni ha abbracciato la fede buddista.

Proprio Sua Santità il Dalai Lama, domani 7 aprile all’alba, terrà un insegnamento sulle Quattro Nobili Verità (denpai shi), seguito da una sessione di domande e risposte. I contenuti saranno disponibili nei prossimi giorni sui social dell’Unione Buddista Italiana

Per il buddismo sono le fasi nella comprensione di ogni verità che ci permettono di capire quale deve essere la nostra posizione, fisica e mentale, su questa Terra che ci ospita. Ancora una volta, fede e scienza non sono poi così distanti nell’affermare che la logica del profitto a tutti i costi non è quella che deve guidarci. È forse la ragione per cui nasciamo persone, non amministratori delegati.

Terre Rare e ingiuste

Non lo sapete, forse, ma è molto probabile che abbiate in tasca un pezzo di Congo. Il vostro smartphone, infatti, potrebbe contenere una piccola quantità di coltan, ingrediente indispensabile per ottimizzare il consumo di energia nei chip di nuova generazione. È dalla Repubblica Democratica del Congo che arriva il più puro, conteso per la fabbricazione di cellulari e computer.

E questo è il punto dolente del Congo, essere ricchissimo. “Siamo uno dei Paesi più ricchi del pianeta, eppure i miei compatrioti sono tra i più poveri al mondo – dichiara il medico congolese Premio Nobel per la Pace Denis Mukwege. L’inquietante realtà è che proprio l’abbondanza delle nostre risorse naturali, oro, coltan, cobalto e altri minerali strategici, è causa primaria di guerre, violenza estrema e povertà assoluta”.

L’attenzione che richiama tanti interessi economici ha creato nel Paese uno scenario di violenza estrema in cui è difficile (leggasi “non conveniente”) intervenire. A oggi, sarebbero circa 6 milioni i morti per cause dirette e indirette del conflitto e 4 milioni i profughi. “Quando guidate la vostra auto elettrica o quando usate il vostro smartphone – continua il dottor Mukwege – prendetevi un minuto per riflettere sul costo umano che c’è dietro la produzione di questi oggetti. Come consumatori, cerchiamo quanto meno di pretendere che siano realizzati nel rispetto della dignità umana. Girare la testa significa essere complici”.

C’è un documentario che spiega cosa sia il Congo, un supermercato di risorse preziose grande come Italia, Francia e Germania messe insieme. Cold Case Hammarskjölddi Mads Brügger narra la storia del misterioso incidente aereo in cui perse la vita il Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld, definito uno dei Peace Maker del XX Secolo.

Il 18 settembre 1961, l’aereo su cui viaggiava precipitò mentre questi si apprestava a incontrare Moïse Tshombe, leader della provincia ribelle del Katanga, che aveva appena dichiarato l’indipendenza dal Congo. Il Segretario ONU sperava di convincerlo a ricongiungersi al Congo indipendente. I ribelli erano però sostenuti dalla potente società belga Union Minière e la pace non era compatibile con i profitti dell’azienda. 

È in questa polveriera, che il mondo della buona diplomazia ha appena perso un altro suo paladino. Tra le molte ombre che circondano l’omicidio di Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, c’è un mondo difficile da immaginare mentre decidiamo di comprare l’ultimo modello di telefonino o un’auto elettrica che entusiasma per le sue “emissioni zero”.

Ho avuto modo di conoscere i genitori e alcuni amici di Luca a una commemorazione privata. Sono molto grato per l’opportunità concessami. Ho ascoltato attentamente le testimonianze di chi ha ricordato. Non ho mai incontrato il nostro ambasciatore ma lo sentivo vicino per il suo luogo di origine prossimo a casa mia e per il corso di studi che ci accomunava.

Dopo la piccola cerimonia, mi sembra di conoscerlo di persona, Luca Attanasio. Anche per i sorrisi che, mi hanno raccontato, riusciva a suscitare perfino in situazioni poco convenzionali per un diplomatico. È così che mi sono spiegato come mai le foto che lo ritraggono sono tutte rassicuranti. Luca era molto preparato, conosceva la storia e sono convinto che fosse perfettamente a conoscenza dei rischi che correva inoltrandosi sulla strada che gli fu fatale. Eppure non si è tirato indietro.

Recentemente gli è stato dedicato un albero nel Giardino dei Giusti a Milano. Credo che il gesto sia un doveroso riconoscimento a chi riesce a sorridere anche quando le cose non vanno come dovrebbero andare.

Vi invito alla lettura di Che cosa c’è da ridere di Federico Baccomo. Per Erich, un comico ebreo berlinese, nel 1933 le cose erano molto difficili. La storia e la sua biografia si intrecciavano negando la salvezza nonostante il personaggio suscitasse ilarità e riuscisse a portare buon umore perfino davanti ai carnefici responsabili del massacro della sua gente.

Il libro ci riporta alla Shoah, raccontando le tante vite che si sono perdute nell’orrore o che hanno cercato di restare accese di fronte alla furia dell’odio. Ma saremmo degli stolti se non facessimo tesoro della Memoria, che continua a essere illuminata da esempi che ancora oggi vivono e si sacrificano.

Per Erich lo troviamo in un libro, per Luca in una vita.

È per questo che penso a come entrambi siano la punta di un iceberg di cui noi siamo tutto il resto. Il sorriso di Luca in Africa (e prima in Asia) è un modo per sognare, una sorta di passaporto che ci ha consegnato per proseguire verso un altrove e pensare che un mondo migliore esiste se seguiamo il suo esempio. Voglio scriverlo per mamma Alida e papà Salvatore, per la sua Zakia e per le loro tre bimbe. Non esiste un’arma capace di cancellare un esempio come quello dell’Ambasciatore Attanasio, del segretario Hammarskjöld e di tutti quelli che guardano avanti verso a meta che, siamo sicuri, è quella dei Giusti.

preti che predicano il verde

Sono sempre stato affascinato da un certo tipo di sacerdote, quello che non ha paura di sporcarsi le mani, in una missione oltremare come nei quartieri più critici delle nostre città. Nel 2008, l’indimenticato Candido Cannavò pubblicava Pretacci, storie di uomini che portano il vangelo sul marciapiede.

Ho chiesto al figlio Alessandro di raccontarmi cosa avesse spinto papà ad abbandonare per qualche ora il tempio del giornalismo milanese per dedicarsi a quei sacerdoti che al pulpito e alle speculazioni teologiche hanno preferito l’impegno nelle zone più difficili del nostro paese, in aree dove perfino le forze dell’ordine hanno difficoltà a muoversi.

«Candido ha sempre avuto una particolare attenzione per le fasce più deboli, gli emarginati, gli invisibili – dice Alessandro Cannavò – Da direttore della Gazzetta ha spesso coinvolto i campioni dello sport in iniziative sociali. Non era mosso solo da una spinta etica, sapeva col fiuto del giornalista di razza che le loro storie sono dei veri tesori di umanità.

Con questa convinzione si è avvicinato ai pretacci, affettuoso e ironico dispregiativo per definire i preti in prima linea nell’affrontare le emergenze sociali. Papà non era religioso ma ammirava quel volto del cristianesimo che affonda ogni giorno le mani nella melma della violenza, delle sopraffazioni, dell’indifferenza e della miseria materiale e morale per estrarre il buono che nonostante tutto esiste e che può crescere.

È una chiesa che non ha paura, forte della consapevolezza di essere portatrice della parola e dell’esempio di Gesù Cristo. Un mondo, quello dei pretacci, che ha raccontato andando in giro per l’Italia con il taccuino in mano e l’entusiasmo di un giovane cronista. Ho un solo rammarico: che mio padre sia morto prima dell’arrivo di Bergoglio. Avrebbe vissuto questo pontefice come una vittoria personale.»

Proprio Papa Francesco, con l’enciclica Laudato sì del 2015, prende una posizione ferma sull’ecologia, non solo quella delle bandiere ambientaliste, ma quella integrale per l’equità verso i poveri, l’impegno nella società, naturalmente anche quella per la Natura. Con il titolo è preso in prestito dal Cantico delle creature di San Francesco, il pontefice chiede per la nostra terra, “casa comune” maltrattata e saccheggiata, una “conversione ecologica” e un “cambiamento di rotta”.

Oggi esce Preti Verdi, l’Italia dei veleni e i sacerdoti-simbolo della battaglia ambientalista. 

Mi piace pensarlo come il passo di un unico percorso iniziato dai primi missionari. Mario Lancisi racconta le storie di dieci sacerdoti combattenti che predicano e agiscono per terra, acqua e aria pulita, elementi indispensabili per la salute e il lavoro. L’Italia dei veleni è colta da diverse angolazioni, quelle che hanno riempito pagine di giornali e che rievocano nei nostri occhi animali agonizzanti, bambini ammalati, terra marcia.

La geografia degli orrori non ha purtroppo bisogno di presentazioni. Ritroviamo l’ILVA di Taranto, il petrolchimico di Augusta, la famigerata terra dei fuochi, l’eternit di Casale, l’inceneritore di Brescia, il cemento selvaggio del Veneto. Se l’Italia vista da Capri, dal Canal Grande, dai Fori Imperiali, dalla cupola del Brunelleschi ci rende orgogliosi, quella vista dai campanili di Don Albino Bizzotto, Padre Guidalberto Bormolini, Don Michele Olivieri, Padre Maurizio Patriciello, Padre Nicola Preziuso, Don Palmiro Prisutto, Don Marco Ricci, Don Gabriele Scalmana, Don Giuseppe Trifirò, Padre Bernardino Zanella, ci fa vergognare, increduli che si tratti dello stesso paese.

Ho volutamente citato tutti questi sacerdoti perché possiate cercarli in rete e incuriosirvi. L’autore ci aiuta a fissarli nella memoria perché se ne possa parlare. È giustissimo che l’ecologia ci racconti di balene e delfini da proteggere, ma c’è un mondo che in parallelo non possiamo dimenticare e che forse deve toccare la nostra coscienza prima di ogni altro aspetto, perché il male lo abbiamo in casa. Preti verdi serve a questo.

La generazione Oceano per il prossimo decennio

Quando sentiamo parlare di crisi climatica e delle minacce del climate change, non sempre abbiamo a fuoco il problema nella sua totalità. La questione non è solo legata ai dati di innalzamento della temperatura globale. La definizione è molto più complicata, condizionata da una serie di variabili, di cui la più imprevedibile è quella generata dalla specie che vedete riflessa ogni mattina nello specchio. La nostra.

Aiutiamoci con una definizione. “Il clima è lo stato dell’atmosfera e dell’oceano che è in equilibrio con la forzatura solare esterna, cioè le condizioni che si ripetono frequentemente e che in qualche modo caratterizzano lo stato fondamentale del sistema atmosfera-oceano”. Le parole di Antonio Navarra, direttore del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, rendono evidenti quanto il problema sia da concentrare tanto sulla componente aerea quanto su quella acquea del nostro pianeta.

Se l’aria è spesso al centro delle nostre attenzioni, non fosse altro perché è il nostro principale alimento, non altrettanta attenzione è dedicata agli oceani. È l’economia a dirci che 3 miliardi di esseri umani dipendono la loro esistenza dal continente liquido, ma è la climatologia a spiegarci che perfino chi vive nell’ultimo rifugio di montagna dipende dal mare. E se, fino a non molto tempo fa, esso era considerato una risorsa inesauribile e inattaccabile, oggi abbiamo dati a sufficienza per definirlo seriamente minacciato.

A ricordarcelo e a sensibilizzarci, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2021 – 2030 “Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile”. Questa iniziativa punta a mobilitare la comunità scientifica, i governi, il settore privato e la società civile intorno a un programma comune di ricerca e di innovazione tecnologica che focalizza sette obiettivi da conseguire per l’oceano. Dobbiamo fare di tutto per garantirlo:

  • pulito, con le fonti di inquinamento chiaramente identificate e ridotte fino ad essere rimosse,
  • sano, con ecosistemi marini mappati, protetti, reintegrati e saggiamente gestiti,
  • sostenibile, così da garantire la fornitura di cibo e di risorse che generino occupazione nel rispetto degli equilibri,
  • predicibile, dando alla società la capacità di comprendere le condizioni oceaniche attuali e ipotizzare le future,
  • sicuro, in cui le persone abbiano coscienza dei pericoli che comunque fanno parte del sistema marino,
  • accessibile, per la divulgazione di dati, informazioni e tecnologie,
  • fonte di ispirazione e coinvolgente, perché la società possa capire e condividere il mare in relazione al benessere umano e animale.

Ci sono molti testimoni schierati, ma l’agente di cambiamento più efficace rimaniamo noi, con la parsimonia dei nostri consumi quotidiani, con la leggerezza delle confezioni che acquistiamo, con il voto che esprimiamo, con le risorse che ricicliamo e riutilizziamo, con la sottoscrizione e la condivisione del Manifesto.

E naturalmente con gli esempi che portiamo ai più piccoli. Mi ha colpito la storia di Ida e la Balena volante, graphic novel dove una bambina che vive in un bosco riceve la visita di un cetaceo. Inizialmente impaurita dalle sue dimensioni – chi di noi non si è mai trovato almeno un attimo smarrito di fronte alla vastità del mare? – accetta l’invito di cavalcarla per scoprire il mondo e la sua diversità. Una successione di quadri dipinti con raffinatezza per un racconto filosofico nato da una coppia di illustratori svizzeri che vivono insieme in mezzo alla natura, proprio come la piccola protagonista. Impugnando colori e pennello, esprimono l’idea che tutti avremmo bisogno di una balena per ampliare gli orizzonti arrivando a quello assoluto del blu. Chissà che il decennio degli oceani non sia davvero la nostra occasione per lasciare il bosco a cui siamo aggrappati e guardare in modo diverso il mondo che lasceremo in eredità a Ida.

Impara l’arte (e divulgala)

«La bellezza salverà il mondo», se sai come fare. Penso che Dostoewskij non se ne avrà a male per l’aggiunta, sempre più necessaria quando circostanziata all’arte, all’ambiente e al territorio. Se già certe istituzioni, piccoli musei, attrazioni culturali languivano prima, il lockdown è stata una mazzata di quelle che buttano al tappeto.

Di fronte a una catastrofe puoi subire o prendere atto dei tuoi mezzi e provare a ricostruire, che non significa necessariamente rifare quello che facevi prima. A volte bisogna osare e provare strade nuove.

A Milano James Bradburne è il direttore di Brera e uno di quelli che considero un illuminato per azioni e reazioni. Preso atto che gli appassionati non potevano andare al museo, glielo ha consegnato a domicilio con Brera Ascolta, un museo a casa tua. Le visite al sito sono cresciute nell’ordine delle centinaia di migliaia. Lo stesso possiamo dire di Cristian Greco dal Museo Egizio di Torino con le Le passeggiate del Direttore guidate da lui medesimo e da esperti.

Andiamo verso una digitalizzazione matura, seria, non di acqua dolce perché non si limita a portare il depliant sul web ma cala nella realtà come e di più che non se si fosse lì. Andiamo anche verso una fase esperienziale per cui si promuove o visita la realtà ma lo si fa in modo indimenticabile grazie alla qualità dell’accompagnatore.

Quando giriamo un documentario abbiamo la fortuna di ottenere visite speciali con la guida dei curatori. Credetemi se vi dico che puoi visitare dieci volte un luogo ma non è mai come essere accompagnati dal padrone di casa.

Due esempi a diversi livelli ci mostrano la portata di quello che ancora si può fare.

Il primo tocca un’icona di stile. Chiara Ferragni agli Uffizi c’era per un servizio di Vogue, si è postata dichiarando dove fosse ed è stato boom di visibilità. Chiunque abbia espresso una critica a qualsiasi livello deve tacere e basta. 

Accetto pareri solo se si visitano musei e si conosce davvero la fatica necessaria a promuovere la cultura. Poi, scusate, uno: la Ferragni era già lì per una testata di prestigio a cui molti si riferiscono. Due: essa stessa è seguitissima in tutto il mondo perché un‘interprete della bellezza (e ammettiamolo che siamo tutti un po’ invidiosi da tanto che è bella e fine). Tre: ha legato il suo nome a un museo portandolo alla ribalta e magari stimolando a visitarlo chi non ci sarebbe mai andato. E io dovrei lamentarmi? Ne vorrei cento e mille di Chiare Ferragni che aiutino a promuovere le istituzioni culturali.

Diciamole grazie invece di criticare. Ho sinceramente apprezzato pure il modo in cui il marito Fedez l’ha difesa dagli attacchi dei leoni da tastiera. I Ferragnez a me divertono perché sono l’equivalente dei Sandra e Raimondo della mia epoca – Chiara e Federico non vogliatemi male per il paragone perché è un grosso complimento! – e quando si muovono lo fanno anche per fin di bene, vedi le operazioni sanitarie e solidali che hanno sostenuto personalmente per l’emergenza covid. 

Se qualcuno ha dubbi che la bellezza abbia bisogno di testimonial, oggi diremmo influencer, legga Umberto Eco. La sua Storia della bellezza rimane un punto di riferimento. 

Secondo esempio: per la stessa forza motrice di bellezza appena accennata non posso non apprezzare le migliaia di volontari impegnati nell’arte. Ai miei occhi sono già un pezzo di quei cento e mille che auspico sopra. Un’iniziativa di questi giorni è quella del Touring Club Italiano, un’istituzione che da oltre un secolo promuove il nostro paese e le bellezze che lo distinguono. La spontaneità di quella ragazza del loro ultimo spot non mi lascia indifferente. 

Insieme al loro tempo, i volontari dei luoghi “Aperti per voi” hanno messo la faccia nel messaggio per invitare al sostegno degli 80 luoghi che ogni giorno li vede testimoni e attori nel mondo della cultura. I due euro della donazione attraverso un sms sono strameritati e, per quanto mi riguarda, dovuti.

Se poi qualcuno volesse fare di più per la campagna Prenditi cura dell’Italia con noi, basta seguire le istruzioni. «Nei primi giorni del contagio abbiamo pubblicato la campagna “Passione Italia” – dichiara Arianna Fabri, responsabile della promozione e dello sviluppo associativo del Touring – per contrapporre alla mappa del contagio la mappa della bellezza e incoraggiare tutti i cittadini italiani alla creazione di una carta geografica per viaggiare simbolicamente da casa e per non dimenticare quello che l’Italia offre.»

Ecco il punto! Quella carta dobbiamo averla dentro, un tatuaggio sul cuore per non perdere la direzione che più che mai in momenti di incertezza è indispensabile.

C’era una volta (quel) west

Se doveste pensare a un luogo tranquillo dove andare in vacanza e vi piacesse da morire il cinema, ho il posto che fa per voi. Nell’estate in cui sarà meglio avere un po’ di spazio intorno, ecco un angolo d’Europa perfetto per isolarsi come in un film di Lawrence d’Arabia, avventuroso per scoprire l’Indiana Jones che è in voi, ideale per calarvi nel west che ci ha fatto sognare.

Ad attestarlo non sono (solo) io ma la European Film Academy, che ha dichiarato il deserto di Tabernas, in Andalusia, “tesoro della cultura cinematografica europea”. Questa parte della Spagna è strana, non aspettatevi la movida di altre aree. Già il piccolo aeroporto è una scommessa sui freni dell’aereo per non finire a mollo. Giuro, parla una foto per me. Ma il resto arriva subito a ruota.

C’era una volta quel

Vai in albergo e trovi il corridoio costellato delle immagini dei divi che sono passati di lì a girare. E ti viene normale fare la foto tra le star, ma è solo l’inizio. Per i più giovani il riassunto degli scenari potrebbe farlo il video Boum Boum Boum di Mika

Per gli over 40 il riferimento principale è invece al western. Non Arizona o Texas. Ma una terra con strade che tirano dritte come un colpo di fucile e ci trovi il Black Hotel della serie Black Mirror, oppure sterrati contorti che serpeggiano tra le rocce e sei nel West. Non è un West qualsiasi. Niente Arizona o Texas. È quello che c’è nella testa di quando ero bambino, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grosso un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare e il mondo mi sembrava molto più grande. 

Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne. 
Però ero nel film. Lì, a fianco di Henry Fonda e Charles Bronson mentre si guardavano in faccia per minuti infiniti prima di premere il grilletto fatale. Ero al fianco di Clint Eastwood a dargli man forte mentre faceva il giustiziere dell’avamposto di San Miguel. C’ero anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari. 

Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli “altri”. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che oggi è l’adulto. Uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio in maglietta che non in cravatta, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino. Il bimbo di città di allora vive oggi tra i boschi dove la sera vengono a trovarlo lupi e cinghiali.

C’era una volta quel

Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, contiene ancora molto di quei film. Cammini nel deserto di Tabernas tra le location ascoltando le musiche di Morricone. Piangi dalla bellezza. Dall’emozione. Alcune case le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western. Mika è lì, nella finzione, ma tu vai oltre.

Se ti procuri una brava guida, la cosa cambia. Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarmi nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era un’insegna ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che punteggiavano la prateria tracciando una linea verso dei ruderi. Il set di Sergio Leone. L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco. 

Noi da soli, sul set spento dal 1966.  Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza. Ma non è solo West, il deserto di Almeria. Jorge era ben attrezzato e mi ha mostrato come da lì fosse passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con il tank nazista nella saga di Indiana Jones.

È passata di qui anche la più costosa delle serie, la più famosa, la più sopravvalutata. Il regno dei Dothraki in Game of Thrones era a Tabernas. Nel deserto sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco. Ambientazione pomposa anche alla rocca di Almeria, con le scene della reggia del sud affacciate su un giardino fatto di cascatelle che ricordano il passato arabo e il culto di chi aveva già capito quanto l’acqua fosse preziosa.

C’era una volta quel

Potenza della fantasia e della pioggia di milioni rovesciati dalla post produzione della HBO se il deserto di Tabernas continua a entrare nelle nostre case. Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.